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08/05/2023Riportiamo un caso di malasanità trattato dal Tribunale di Vicenza che, con la sentenza n. 357 del 15.02.2023, ha riconosciuto la responsabilità dei medici che si rendevano responsabili della dissezione dell’aorta durante un intervento di plastica della valvola mitrale, con conseguente decesso della paziente.
I congiunti hanno ottenuto il risarcimento dei danni da perdita del rapporto parentale.
- Oltre alla colpa medica la cartella clinica era incompleta
- Come si prova che vi è stata colpa medica
- La Consulenza Tecnica d’Ufficio
- Come si prova di aver subito danni
- La quantificazione del danno da perdita parentale
- Rivolgiti ad avvocati esperti in malasanità
Oltre alla colpa medica la cartella clinica era incompleta
I familiari di una donna si sono rivolti al Tribunale di Vicenza ritenendo che la loro congiunta fosse stata vittima di colpa medica per i seguenti motivi.
Nel marzo 2016 la donna, affetta da un’insufficienza mitralica severa dopo un’operazione di valvuloplastica mitralica eseguita nel 2010, veniva ricoverata presso il reparto di cardiochirurgia dell’Ospedale per sottoporsi ad un nuovo intervento di plastica della valvola mitrale.
Per la realizzazione del programmato intervento, eseguito in data 14.03.2016 con tecnica mininvasiva che richiedeva il clampaggio aortico, si era deciso di utilizzare il sistema “endoclamp Edwards Intraclude” (palloncino che si gonfia all’interno dell’aorta, occludendola) con arresto del cuore con cardioplegia anterograda in bulbo aortico.
Tuttavia, al momento del declampaggio (ovvero allorché l’aorta doveva essere riattivata) si assisteva ad una improvvisa destabilizzazione emodinamica a causa dell’insorgenza di una grave complicanza, essendosi verificata una dissezione dell’aorta ascendente e dell’arco aortico.
I sanitari intervenuti effettuavano la cannulazione dell’arteria ascellare di destra, procedevano a sternotomia mediana e praticavano la sostituzione dell’aorta ascendente con protesi vascolare, prolungando l’assistenza meccanica al circolo.
La paziente veniva assistita con ECMO e traferita in terapia intensiva, dove, a fronte dell’impossibilità di superare la situazione clinica di grave ipotensione arteriosa che si era venuta a delineare, decedeva il giorno seguente.
All’esito dell’autopsia, la causa ultima del decesso veniva individuata dai sanitari in “ischemia miocardica acuta in esiti di dissezione aortica“;
Gli accertamenti medico-legali condotti dai professionisti incaricati dai familiari evidenziavano elementi di responsabilità a carico dei sanitari, ai quali poteva rimproverarsi sia di avere omesso o, comunque, svolto in maniera negligente l’attività di monitoraggio ecocardiografico del posizionamento dell’endoclamp e della pressione del palloncino che avrebbe dovuto mantenersi nella misura di 350/400 mm.Hg, sia di non avere realizzato, durante l’intervento, un’adeguata protezione miocardica.
Secondo i consulenti, la morte della donna era causalmente riconducibile all’accertata condotta colposa del personale medico, in quanto l’ostruzione degli osti coronari, all’origine dell’ischemia miocardica che aveva condotto all’exitus della paziente, era stata determinata dalla dissezione aortica che, a sua volta, trovava causa in “un trauma meccanico dell’endoclamp sulla parete aortica per eccessivo gonfiaggio del pallone o per trauma da scivolamento nel corso dell’intervento chirurgico“, mentre la carente protezione miocardica aveva provocato “l’infarto miocardico anche del ventricolo sinistro, seppur la coronaria sinistra non fosse stata coinvolta dalla dissezione aortica“.
A fronte di tali fatti, i familiari chiedevano il risarcimento di ogni danno patito e, in particolare, quello iure proprio conseguente alla perdita del rapporto parentale, nonché il danno patrimoniale emergente per spese funerarie e per gli esborsi legati alla perizia di parte e all’assistenza legale.
L’ospedale negava la fondatezza di ogni addebito di responsabilità, sostenendo l’assenza di qualsiasi errore professionale nel trattamento sanitario in contestazione e la totale mancanza di rapporto causale tra la morte della paziente e la condotta dei medici ospedalieri.
Come si prova che vi è stata colpa medica
Il Tribunale, prima di riportare gli esiti della C.T.U. medico-legale, si sofferma sul regime probatorio applicabile nei casi di malasanità come quello di cui stiamo trattando.
Ai fini dell’esatta individuazione del regime probatorio applicabile alla presente controversia, in cui i familiari svolgono un’azione risarcitoria, “iure proprio“, quali congiunti della vittima primaria, in relazione agli asseriti fatti di malpractice medica fonte dei danni di cui chiedono il ristoro nei confronti dell’ospedale, secondo il Tribunale di Vicenza va richiamato seguente costante orientamento della Corte di Cassazione.
Con riguardo ai danni “iure hereditatis”, ovvero a quelli patiti direttamente dal paziente e fatti valere dai congiunti in via successoria, la responsabilità dell’Ente ospedaliero ha pacificamente natura contrattuale, per cui vige il principio in base al quale il danneggiato deve fornire la prova del contratto, o del contatto, e dell’aggravamento della situazione patologica o dell’insorgenza di nuove patologie, e del relativo nesso di causalità con l’azione o l’omissione dei sanitari, secondo il criterio, ispirato alla regola della normalità causale, del più probabile che non, restando a carico dell’ente ospedaliero la prova che la prestazione sanitaria sia stata eseguita in modo diligente e che quegli esiti siano stati determinati da un evento imprevisto e imprevedibile.
Per le pretese azionate “iure proprio” dai parenti della persona deceduta dev’essere invece richiamato il diverso istituto della responsabilità aquiliana, posto che colui che agisce in giudizio, in mancanza di un rapporto negoziale diretto con la Struttura Sanitaria, può far valere la violazione, da parte della convenuta, non già di una specifica obbligazione contrattuale, bensì del dovere generico del neminem laedere nella vita di relazione, ai sensi e per gli effetti dell’art. 2043 c. c., secondo cui la responsabilità della struttura sanitaria per i danni da perdita del rapporto parentale, invocati iure proprio dai congiunti di un paziente deceduto, è qualificabile come extracontrattuale, dal momento che, da un lato, il rapporto contrattuale intercorre unicamente col paziente, e dall’altro i parenti non rientrano nella categoria dei terzi protetti dal contratto, potendo postularsi l’efficacia protettiva verso terzi del contratto concluso tra il nosocomio ed il paziente esclusivamente ove l’interesse, del quale tali terzi siano portatori, risulti anch’esso strettamente connesso a quello già regolato sul piano della programmazione negoziale. Il regime dell’onere probatorio in tal caso è quindi differente, dovendo i congiunti dimostrare la condotta dolosa o colposa, oltre al danno e alla sua derivazione eziologica dalla condotta.
Per quanto riguarda il profilo della causalità – la cui prova incombe ex art. 2697 c.c. sul paziente/congiunti sia nei giudizi di risarcimento del danno derivante da inadempimento contrattuale, sia in quelli di risarcimento da fatto illecito, nella sua ricostruzione vengono in rilievo due momenti, distinguendosi:
1) la causalità materiale tra la condotta e l’evento di danno che è quella fondante la responsabilità e che ricorre quando il comportamento abbia generato o contribuito a generare l’evento (art. 40,41 c.p.);
2) la causalità giuridica, successiva all’accertamento della causalità materiale, consistente nella determinazione dell’intero danno cagionato, che costituisce l’oggetto dell’obbligazione risarcitoria (art. 1223,1225,1227 c. 2 c.c.).
Relativamente all’accertamento del cd. “primo stadio della causalità” (coincidente, nella fattispecie concreta, con la verifica del nesso causale tra l’operato medico e il danno – evento rappresentato dal decesso della paziente), è noto che la verifica eziologica in sede civile è anch’essa governata dal combinato disposto degli artt. 40 e 41 c.p. (per i quali un evento è da considerare causato da un altro se il primo non si sarebbe verificato in assenza del secondo), ma, a differenza di quanto avviene in ambito penale, dev’essere compiuta attraverso un criterio necessariamente probabilistico, fondato sulla cd. “regola della preponderanza dell’evidenza” o “del più probabile che non“.
Per la costante giurisprudenza della Corte di Cassazione, detto criterio non va inteso nel senso che l’accertamento del nesso causale nella sua materialità debba essere condotto sulla base di calcoli meramente statistici, dovendosi invece far ricorso ad un giudizio di probabilità logico-razionale, cioè di ragionevole verosimiglianza da operare alla stregua degli elementi di conferma (tra cui, soprattutto, l’esclusione di altri possibili e alternativi processi causali) disponibili in relazione al caso concreto.
In definitiva, dunque, l’esistenza del rapporto di causalità tra una condotta illecita ed un evento di danno può essere affermata dal giudice civile anche soltanto sulla base di una prova che lo renda probabile nei termini appena evidenziati, a nulla rilevando che tale prova non sia idonea a garantire una assoluta certezza al di là di ogni ragionevole dubbio; infatti, la differente regola probatoria, in ambito penale e in ambito civile, trova la propria giustificazione nella diversità dei valori in gioco nel processo penale tra accusa e difesa e, viceversa, nell’equivalenza di quelli in gioco nel processo civile tra le due parti contendenti.
La Consulenza Tecnica d’Ufficio
I consulenti tecnici nominati dal Tribunale hanno, prima di tutto, messo in luce – ma sul punto non vi è contrasto tra le parti – la correttezza della scelta terapeutica operata dai medici ospedalieri, consistita nell’aver sottoposto la paziente al predetto intervento dopo aver riscontrato, nel corso di una visita cardiochirurgica di controllo nell’ottobre 2014, una insufficienza mitralica severa residuante all’esito di valvuloplastica mitralica eseguita nel 2010.
E’ stato, altresì, giudicato corretto ed, anzi, per taluni aspetti vantaggioso o, comunque, indicato nei casi di reintervento sulla mitrale il ricorso alla tecnica chirurgica mininvasiva con utilizzo dell’endo-clamp (preferito al clampaggio dell’aorta con tecnica toracotomica), non essendo emerse anomalie o fattori di rischio nel corso degli esami strumentali preoperatori, risultati completi ed adeguati.
Nel proprio elaborato il Collegio peritale ha poi evidenziato l’ “esito tecnico inizialmente soddisfacente” del trattamento sanitario praticato che, tuttavia, dopo la sua esecuzione subiva una grave complicanza: “infatti, al termine della procedura di sostituzione valvolare, declampata l’aorta mediante ritiro dell’Intraclude aortico (palloncino), ripresa la funzione cardiaca e verificata la buona tenuta della valvola mitrale riparata, dopo qualche minuto si assisteva ad un’improvvisa destabilizzazione emodinamica con evidenza all’ecocardiografia di dissezione dell’aorta ascendente e dell’arco aortico“.
Le indagini svolte a mezzo della c.t.u. hanno confermato, pertanto, che la paziente è deceduta a seguito di una dissezione aortica iatrogena – definita come complicanza rara – che ha determinato una grave instabilità emodinamica e che, seppur trattata tempestivamente e diligentemente dal personale medico, ha condotto alla morte della paziente.
Non è, quindi, in discussione la correttezza dell’operato dei sanitari al momento dell’insorgenza della complicanza. Il contrasto tra le parti ruota, invece, attorno all’origine eziologica della dissezione aortica che non è stata oggetto di identificazione certa neppure da parte dei cc.tt.uu., i quali hanno ritenuto di poter avanzare solo delle ipotesi, prospettando tre possibili cause produttrici dell’evento di danno, nessuna delle quali ha trovato sicura conferma nei dati clinici e documentali a disposizione e nella ricostruzione dell’intervento.
Nello specifico, ad avviso dei periti del Tribunale, la lesione dell’aorta appalesatasi dopo lo sgonfiaggio dell’endoclamp e la ripresa dell’attività cardiaca (trattasi, quindi, di dissezione anterograda), potrebbe essere dipesa da:
1) rottura spontanea della parete vascolare durante l’intervento. Il pallone, una volta gonfiato, avrebbe potuto dislocare una placca aterosclerotica creando la lesione iniziale, fonte della dissezione, una volta ripristinato il flusso anterogrado. A fronte di un gonfiaggio del pallone a pressione congrua e infusione di cardioplegia a flusso ideale, il meccanismo di rottura aortica si sarebbe potuto riferire ad una modalità del tutto imprevedibile ed inevitabile, stante l’impossibilità di rilevare la presenza di una placca di minute dimensioni in aorta ascendente con gli esami strumentali eseguiti (prima ipotesi: causa naturale).
2) Eccessivo gonfiaggio iniziale del palloncino (endoclamp), che però non si spinge fino all’ostio della coronaria di destra, sede iniziale di rottura, seguito dalla manovra di apertura dell’atrio sinistro con spostamento del setto che avrebbe potuto avvicinare l’ostio coronarico destro al punto in cui il jet di cardioplegia era diretto. Da sottolineare che jet ripetuti di cardioplegia sullo stesso punto hanno un effetto di lama tagliente, motivo per cui si sarebbe potuta creare la lesione iniziale che avrebbe poi portato alla dissezione (seconda ipotesi: causa umana).
3). Eccessiva pressione di cardioplegia. La forte pressione del jet di cardioplegia o la necessità di ripetere numerose volte la stessa su una parete che già di per sé sembrava presentarsi debole, sempre per l’effetto “lama tagliente”, potrebbe aver determinato la lesione iniziale da cui avrebbe avuto origine lo slaminamento” (terza ipotesi: causa umana).
Nell’ipotesi in esame, tuttavia, a causa delle carenze documentali rilevate dai cc.tt.uu. nella cartella clinica, non sono stati individuati elementi e dati clinici ritenuti rilevanti ai fini della ricostruzione del nesso eziologico (vale a dire i valori pressori del palloncino e le motivazioni della cardioplegia ripetuta, la cui indicazione è stata totalmente omessa nella cartella ospedaliera), per cui hanno prospettato, in via alternativa, le tre ipotesi eziopatogenetiche sopra descritte (rottura spontanea del vaso, eccessiva pressione nel gonfiaggio del palloncino, mancato controllo dell’infusione cardioplegica), ponendole tutte sullo stesso piano dal punto di vista probabilistico.
Più esattamente, il Collegio peritale ha riferito che “il monitoraggio delle pressioni è incompleto, nei documenti agli atti non viene rilevata né la pressione del pallone occludente l’aorta né la pressione nel bulbo aortico sia dopo il gonfiaggio del pallone sia al momento dell’infusione cardioplegica, venendo quindi a mancare un report dettagliato importante per avvalorare la assoluta correttezza procedurale“. Ha evidenziato che “la cardioplegia veniva ripetuta più volte, complessivamente 5 volte per un totale di 2200 ml di soluzione per 71 min di clampaggio aortico. A seguito della prima dose di 1200 ml, ne seguivano altre rispettivamente di 250 ml, 450 ml, 100 ml, e 200 ml nell’arco di circa 60 minuti ad una distanza media l’una dall’altra di 10-15min. Questa necessità di infondere una dose iniziale maggiore dello standard per la superficie corporea della paziente e di ripetere più volte la cardioplegia a dosi variabili e con tempistiche diverse poteva essere dovuta alla necessità di silenziare un’attività elettrica del cuore che per qualche motivo (cardioplegia inadeguata per rigurgito in ventricolo sinistro, occlusione aortica insufficiente, drenaggio venoso inadeguato) dava segni di ripresa precoce dell’attività. Nella descrizione dell’atto operatorio, però, non si fa cenno a questa ripetuta necessità di infondere dosi supplementari di cardioplegia né se all’atto dell’infusione fosse stato necessario allentare la retrazione della parete atriale per permettere la continenza della valvola aortica e garantire l’efficacia dell’infusione cardioplegica“.
In conclusione, si può tranquillamente affermare che i valori pressori di gonfiaggio del pallone endoaortico ed infusione della cardioplegia in bulbo aortico, la cui registrazione è ritenuta universalmente indispensabile alla corretta condotta della procedura chirurgica, non sono stati riportati né nella scheda di CEC né in quella di anestesia, né se ne ha contezza che siano stati trascritti in qualche altro documento non presente agli atti a disposizione.
Circa le conseguenze dell’acclarata negligenza dei sanitari nella tenuta della documentazione medica, rileva il Tribunale che appaiono sussistere i presupposti per affermare la responsabilità della Struttura sanitaria in relazione all’evento lesivo costituito dalla dissezione aortica, in applicazione del seguente principio giurisprudenziale: “in tema di nesso causale tra condotta del medico e danno risarcibile quando non è possibile stabilire con assoluta esattezza se il danno patito da un paziente sia stato causato dall’imperizia del medico curante o da altre cause e l’incertezza derivi dall’incompletezza della cartella o dall’omesso compimento di altri adempimenti ricadenti sul medico, quest’ultimo deve ritenersi responsabile del danno, allorché la sua condotta sia stata astrattamente idonea a causarlo“.
Come si prova di aver subito danni
A questo punto occorre passare allo scrutinio del cd. “secondo stadio della causalità” che attiene più propriamente alla verifica dei cd. “danni conseguenza“, patrimoniali e/o non patrimoniali, che siano riconducibili all’inadempimento/evento secondo il criterio di regolarità causale ex art. 1223 c.c..
Sul versante non patrimoniale, il Tribunale accoglie la domanda proposta iure proprio di risarcimento del danno da perdita del rapporto parentale con la danneggiata principale, rispettivamente moglie e madre di degli attori.
Relativamente a questa tipologia di danno, giova ricordare che colui che ne invoca il risarcimento lamenta l’incisione di un bene che è ontologicamente distinto da quello che consegue alla lesione della integrità psicofisica (danno lato sensu, biologico), poiché esso si collega alla violazione di un diritto di rilevanza costituzionale diverso da quello alla salute tutelato dall’art. 32 Cost., configurandosi come un pregiudizio esistenziale caratterizzato dalla lesione dei diritti della famiglia (articoli, 2,29 e 30 Cost.).
Secondo la giurisprudenza della Suprema Corte, avvallata anche dal noto pronunciamento delle Sezioni Unite dell’11.11.2008, la morte di un congiunto, cagionata dal fatto illecito di un terzo, ledendo diritti inviolabili riconosciuti e garantiti ai familiari a livello costituzionale, determina in capo a questi un danno ingiusto, presumibilmente apprezzabile e qualificabile come pregiudizio esistenziale (cfr. Cass. Cass. 15.7.2005 n. 15019; Cass. 8828/03, Cass. 8827/03, Cass. 7.11.2003 n. 16716).
Si osserva, infatti, che spetta ai congiunti della vittima iure proprio il risarcimento del danno da perdita del rapporto parentale, in quanto essi subiscono la lesione di un loro interesse di rilievo costituzionale, il quale deve essere tutelato ai sensi dell’articolo 2059 c.c., alla luce dell’interpretazione costituzionalmente orientata della norma (Cfr. Cass. 8828/2003 e Corte Costituzionale sent. n. 233 del 2003 nonché la più recente Cass. S.U. 11.11.2008 n. 26972).
L’interesse fatto valere dai congiunti della vittima è quello alla intangibilità della sfera degli affetti e della reciproca solidarietà nell’ambito della famiglia nonché alla inviolabilità della libera e piena esplicazione delle attività realizzatrici della persona umana nell’ambito della famiglia, la cui tutela è ricollegabile agli articoli 2,29 e 30 Cost.
Il danno da perdita del rapporto parentale, inoltre, non coincide con la lesione dell’interesse protetto, e quindi con l’evento morte in sé e per sé considerato, ma consiste in una perdita, nella privazione di un valore non economico, ma personale, costituito dalla “irreversibile perdita del godimento del congiunto” e dalla “definitiva preclusione delle reciproche relazioni interpersonali“.
Pertanto, come tutti i pregiudizi non patrimoniali, è un danno-conseguenza, che deve essere allegato e provato dal danneggiato. Naturalmente, ai fini probatori potrà anche farsi luogo a valutazioni prognostiche e a presunzioni sulla base degli elementi obiettivi forniti dal danneggiato, quali l’intensità del vincolo familiare, la situazione di convivenza, la consistenza del nucleo familiare, le abitudini di vita, l’età della vittima primaria e quella dei singoli familiari superstiti, la compromissione delle esigenze di quest’ultimi, la personalità individuale di costoro, la loro capacità di reazione e di sopportazione del trauma, ed ogni altra circostanza del caso concreto idonea a dimostrare, sia pure presuntivamente, secondo nozioni di comune esperienza, il pregiudizio subito per la perdita definitiva della relazione parentale, spettando alla controparte la prova contraria di situazioni che compromettono l’unità, la continuità e l’intensità del rapporto familiare.
Alla luce dei principi giurisprudenziali sopra enunciati, può affermarsi che l’esistenza dello stretto rapporto parentale con il defunto è certamente – da sola – idonea a fondare la prova presuntiva (rispetto alla quale nulla è stato dedotto e dimostrato in contrario) dell’esistenza di un pregiudizio non patrimoniale patito da marito e figli per la scomparsa della congiunta.
La quantificazione del danno da perdita parentale
Reputa il Tribunale che per la liquidazione – da effettuarsi in base ad una valutazione equitativa, ex artt. 1226 e 2056 c.c., trattandosi di lesione di valori inerenti alla persona – possa farsi applicazione delle Tabelle integrate a punti recentemente predisposte dall’Osservatorio sulla Giustizia Civile di Milano, in quanto i criteri di liquidazione ivi richiamati possono ritenersi conformi ai principi di diritto enunciati nella sentenza della Corte di Cassazione n. 10579/2021 e, come tali, utilizzabili dal giudice per determinare una liquidazione equa, uniforme e prevedibile del danno da perdita del rapporto parentale.
In proposito la S.C. ha stabilito che “in tema di liquidazione equitativa del danno non patrimoniale, al fine di garantire non solo un’adeguata valutazione delle circostanze del caso concreto, ma anche l’uniformità di giudizio in casi analoghi, il danno da perdita del rapporto parentale deve essere liquidato seguendo una tabella basata sul “sistema a punti”, che preveda, oltre all’adozione del criterio a punto, l’estrazione del valore medio del punto dai precedenti, la modularità e l’elencazione delle circostanze di fatto rilevanti, tra le quali, indefettibilmente, l’età della vittima, l’età del superstite, il grado di parentela e la convivenza, nonché l’indicazione dei relativi punteggi, con la possibilità di applicare sull’importo finale dei correttivi in ragione della particolarità della situazione, salvo che l’eccezionalità del caso non imponga, fornendone adeguata motivazione, una liquidazione del danno senza fare ricorso a tale tabella” (Cass. Civ., Sez. III, 21 aprile 2021 n. 10579 e, in senso conforme, Cass. Civ., Sez. III, ordinanza 29 settembre 2021, n. 26300; v. pure, più di recente, Cass.Civ. ordinanza 16.12.2022 n. 37009 che riconosce espressamente nelle Tabelle di Milano un criterio idoneo alla liquidazione equitativa del danno da perdita del rapporto parentale, proprio in quanto fondate su un sistema “a punto variabile“).
Si precisa che l’applicazione delle nuove Tabelle milanesi va preferita rispetto alle più datate Tabelle di Roma, anch’esse contemplanti un sistema a punti per la quantificazione del danno da perdita del rapporto parentale, in considerazione di quella giurisprudenza di legittimità che invita ad utilizzare la tabella più recente in uso al momento della decisione (cfr. Cass. Civ., Sez. VI-3, ord. 1° luglio 2020, n. 13269).
In considerazione dei principi di diritto sopra richiamati, nella fattispecie concreta il Tribunale ha riconosciuto un risarcimento di circa 250.000 euro al vedovo e a un figlio e di circa 185.000 euro all’altro figlio.
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4 Comments
Mio padre è deceduto per un caso che secondo me è simile a quello dell’articolo. Vorrei sapere se siamo ancora in tempo per chiedere il risarcimento. I fatti sono del 2020. Grazie
Caro Kevin, i familiari di un paziente morto per colpa medica hanno 5 anni di tempo per chiedere il risarcimento, quindi è sempre in tempo. Ci contatti pure e valuteremo senza spese a suo carico il caso. Saluti
Mia madre è morta dopo una sostituzione di valvola al cuore per infezione nel 2021. Posso mandarvi la cartella clinica per un parere? Secondo me qualcosa è andato storto non mi do pace. Grazie
Buongiorno Elly, può inviarci la cartella clinica via posta, email o tramite l’applicazione del nostro sito di cui segue link https://avvocaticollegati.it/avvocato-studio-legale-malasanita/invia-cartella-clinica/“