Una paziente veniva sottoposta a tracheotomia e, per errore medico, da ciò scaturiva una perforazione che dava luogo ad una infezione che, sovrapposta ad altre preesistenti, cagionava la morte della donna.
I familiari si sono rivolti al Tribunale di Lecce che, con sentenza n. 1266 del 3 maggio 2021, ha riconosciuto loro il risarcimento del danno terminale della congiunta, del danno da perdita di chance di sopravvivenza della donna, del danno patrimoniale per mancato apporto della predetta al menage familiare.
Vediamo i punti salienti della sentenza.
I sig.ri C.C.F., C.M.R., C.A.C., C.S.G. e C.M.L., in proprio e quali, rispettivamente, marito e figli della sig.ra R.D.R., hanno agito in giudizio contro ASL (OMISSIS) al fine di ottenere il risarcimento del danno a causa dell'attività sanitaria prestata dai medici del presidio ospedaliero di (OMISSIS).
Con ricorso ex art. 702 bis c.p.c., i ricorrenti hanno evidenziato l'inadeguatezza del trattamento dei sanitari del pronto soccorso di (OMISSIS) nella gestione della paziente, la negligenza dei medici nell'utilizzo dei mezzi diagnostici nel riconoscimento di uno pneumotorace iatrogeno provocato in corso di drenaggio toracico nonché la perforazione della trachea durante l'intervento di tracheotomia, sulla scorta degli esiti dell'accertamento della CTU redatta in sede di ATP - che ha riconosciuto efficacia eziologica all'infezione da klebsiella di origine nosocomiale e ad un errore tecnico durante il tentativo di tracheotomia che ha aggravato il quadro clinico già critico conducendo al decesso dell'assistita.
Essi hanno quindi chiesto che sia accertata la responsabilità dell'ente convenuto nell'aver cagionato il decesso della paziente e la condanna della ASL al risarcimento del danno terminale patito dalla vittima fino al sopraggiungere della morte, iure hereditatis, e del danno non patrimoniale da perdita del rapporto parentale e di quello patrimoniale in termini di lucro cessante, patiti iure proprio, nonché il pregiudizio economico per le spese funerarie e di consulenza, rivendicando, in subordine, la responsabilità dei sanitari per aver determinato la perdita di chance di sopravvivenza della Sig.ra R. con i conseguenziali profili risarcitori suddetti, parametrati all'evento lesivo appena descritto.
Prima di esaminare il merito della questione, occorre in via preliminare chiarire alcuni aspetti generali in materia di responsabilità della struttura sanitaria.
Come noto, l'ampio dibattito sviluppatosi nel corso degli anni ha portato pacificamente la giurisprudenza prima e il legislatore poi a ritenere che la responsabilità della struttura ospedaliera nei confronti del paziente sia di tipo contrattuale, derivante dal contratto c. d. atipico di spedalità che lega l'ente all'assistito.
Si sono tuttavia registrati nel corso degli anni diversi orientamenti in merito alla ripartizione dell'onere probatorio.
La Cassazione ha precisato a Sezioni Unite che "in tema di responsabilità contrattuale della struttura sanitaria e di responsabilità professionale da contatto sociale del medico, ai fini del riparto dell'onere probatorio l'attore, paziente danneggiato, deve limitarsi a provare l'esistenza del contratto (o il contatto sociale) e l'insorgenza o l'aggravamento della patologia ed allegare l'inadempimento del debitore, astrattamente idoneo a provocare il danno lamentato, rimanendo a carico del debitore dimostrare o che tale inadempimento non vi è stato ovvero che, pur esistendo, esso non è stato eziologicamente rilevante" (Cass. civ., SU, n. 577 dell'11.1.2008).
Ancora, la giurisprudenza successiva, in merito alla ripartizione dell'onere della prova, ha chiarito che "nel giudizio di risarcimento del danno conseguente ad attività medico chirurgica, l'attore danneggiato ha l'onere di provare l'esistenza del contratto (o il contatto sociale) e l'insorgenza (o l'aggravamento) della patologia e di allegare l'inadempimento qualificato del debitore, astrattamente idoneo a provocare il danno lamentato, restando, invece, a carico del medico e/o della struttura sanitaria la dimostrazione che tale inadempimento non si sia verificato, ovvero che esso non sia stato causa del danno. Ne consegue che qualora, all'esito del giudizio, permanga incertezza sull'esistenza del nesso causale fra condotta del medico e danno, questa ricade sul debitore" (Cass. civ., Sez. 3, Sentenza n. 20547 del 30/09/2014).
In tempi recenti è stato tuttavia specificato che "in tema di responsabilità contrattuale della struttura sanitaria, incombe sul paziente che agisce per il risarcimento del danno l'onere di provare il nesso di causalità tra l'aggravamento della patologia (o l'insorgenza di una nuova malattia) e l'azione o l'omissione dei sanitari, mentre, ove il danneggiato abbia assolto a tale onere, spetta alla struttura dimostrare l'impossibilità della prestazione derivante da causa non imputabile, provando che l'inesatto adempimento è stato determinato da un impedimento imprevedibile ed inevitabile con l'ordinaria diligenza" (Cass. Civ., Sez. 3 -, Sentenza n. 18392 del 26/07/2017).
In ogni caso, l'accertamento dell'esistenza del nesso causale deve essere compiuto secondo il criterio del "più probabile che non": "in tema di responsabilità civile, il nesso causale è regolato dal principio di cui agli artt. 40 e 41 c.p., per il quale un evento è da considerare causato da un altro se il primo non si sarebbe verificato in assenza del secondo, nonché dal criterio della cosiddetta causalità adeguata, sulla base del quale, all'interno della serie causale, occorre dar rilievo solo a quegli eventi che non appaiano - ad una valutazione "ex ante" - del tutto inverosimili, ferma restando, peraltro, la diversità del regime probatorio applicabile, in ragione dei differenti valori sottesi ai due processi: nel senso che, nell'accertamento del nesso causale in materia civile, vige la regola della preponderanza dell'evidenza o del "più probabile che non", mentre nel processo penale vige la regola della prova "oltre il ragionevole dubbio". Ne consegue, con riguardo alla responsabilità professionale del medico, che, essendo quest'ultimo tenuto a espletare l'attività professionale secondo canoni di diligenza e di perizia scientifica, il giudice, accertata l'omissione di tale attività, può ritenere, in assenza di altri fattori alternativi, che tale omissione sia stata causa dell'evento lesivo e che, per converso, la condotta doverosa, se fosse stata tenuta, avrebbe impedito il verificarsi dell'evento stesso" (Cass. civ., Sez. 3, Sentenza n. 16123 del 08/07/2010).
Anche in tempi recentissimi, con riferimento all'onere probatorio, la Suprema Corte ha statuito che nel caso di responsabilità professionale sanitaria ex art. 1218 c. c. il creditore è sollevato dall'onere di provare la colpa del debitore, sicché sul paziente incombe solo l'onere di provare il nesso di causalità tra l'evento dannoso (aggravamento della patologia preesistente e insorgenza di una nuova patologia) e la condotta dei sanitari secondo il criterio del "più probabile che non" (Cfr. Cass. n. 5487 del 26.02.2019, n. 6593 del 07.03.2019 e n. 21939 del 02.09.2019).
Chiarito quanto sopra in linea generale, si procede ora all'esame del caso di specie.
Nella ricostruzione dei fatti, utile ai fini della valutazione dell'esistenza della responsabilità da parte della struttura ospedaliera, il Tribunale fa sicuro riferimento alla consulenza medico-legale espletata in sede di accertamento tecnico preventivo, in quanto si tratta di perizia attenta e motivata.
Si riportano i passi più rilevanti ai fini della decisione: "come emerge dalla ricostruzione della storia clinica della sig.ra R.D., la malattia di base (broncopolmonite) esordita bruscamente già al domicilio e due giorni prima del ricovero ospedaliero con iperpiressia e tosse e poi dispnea al momento del ricovero, ebbe un'evoluzione progressivamente peggiorativa, con scompenso cardiocircolatorio, pneumotorace con collasso polmonare, multi addensamenti polmonari, insufficienza respiratoria grave. Solo dopo numerosi esami colturali negativi (sangue, liquido pleurico, broncoaspirato) si ottenne l'isolamento di klebsiella pneumoniae multiresistente agli antibiotici (sensibile solo alla colistina, considerato antibiotico di salvataggio per la sua elevata tossicità)”.
Il decesso di R.D. è dunque imputabile a sindrome da Disfunzione multiorgano in paziente con shock settico e grave insufficienza respiratoria.
Viene premesso che la gestione della paziente dal ricovero e fino al 16.07 fu adeguata al quadro clinico. La sig.ra R. giunse in ospedale per una grave insufficienza respiratoria instauratasi da almeno due giorni al proprio domicilio con tosse e febbre, sostenuta da un grosso focolaio broncopneumonico a destra con versamento pleurico e multi addensamenti polmonari con carattere di confluenza sinistra.
Tuttavia solo in data 08.07 fu possibile isolare nel broncoaspirato colonie di klebsiella pneumoniae, mentre in precedenza erano state isolate solo alcune colonie di candida.
La polmonite da klebsiella difficilmente colpisce adulti sani, mentre le categorie più a rischio sono i bambini, gli anziani, i pazienti debilitati e gli immunocompressi. Il rischio di morte è molto alto (pari a circa il 25%-50%), nonostante la disponibilità di antibiotici presumibilmente efficaci.
La diagnosi di certezza si basa naturalmente sull'identificazione dell'agente eziologico isolato da idoneo materiale patologico. L'isolamento responsabile dell'infezione dovrà essere isolato dalle secrezioni bronchiali o da altro materiale patologico. Il primo approccio diagnostico che si ha con il paziente è di tipo clinico: anamnesi, osservazione del quadro clinico, rilevazione dei dati obiettivi e, naturalmente, osservazione del quadro radiografico. Sono tuttavia elementi di valore non assoluto ma che possono fornire un orientamento diagnostico, quanto meno verso forme batteriche e non batteriche, e quindi indirizzare alla scelta degli accertamenti di laboratorio più opportuni. Nelle polmoniti batteriche, come pure in molte altre forme di polmonite, è comunque sempre indicato l'esame batteriologico dell'espettorato e/o delle secrezioni bronchiali raccolte con metodi più o meno invasivi. Meno determinante l'emocoltura.
Poiché klebsiella pneumoniae è il più frequente agente eziologico di polmonite in comunità e secondo per le forme nosocomiali, è assai verosimile che la sig.ra R. sia stata ricoverata con un processo broncopneumonico sostenuto da altri germi sui quali vi fu una sovrapposizione da klebsiella, che è tipicamente nosocomiale. L'infezione consegue all'inalazione di secrezioni orofaringee contaminate da questa specie. E' noto infatti come i pazienti ospedalizzati vengano rapidamente colonizzati da questo ed altri microrganismi Gram-negativi a livello dell'orofaringe. Questa forma di polmonite si manifesta più frequentemente nei pazienti debilitati, negli etilisti, nei diabetici, nei portatori di cardiopatie, nefropatie e neoplasie. L'esame microscopico dell'espettorato rivela spesso la presenza di numerosissimi bacilli Gram-negativi capsulati. Molto importante è l'isolamento di questa specie per l'esecuzione dell'antibiogramma. Nel caso in questione si trattava, come sempre più frequentemente accade, di un germe multiresistente alla terapia antibiotica.
Solo a seguito dell'isolamento di quel germe - che avvenne in data 8 luglio - fu possibile avviare una terapia antibiotica specifica e peraltro particolarmente tossica.
Il decorso clinico fu poi complicato da Critical Illnes Polineuropaty associata a miopatia.
Per tali ragioni, la gestione clinica della paziente, particolarmente complicata fino a quel momento, fu adeguata anche in relazione alla severità del quadro generale fino al giorno 16 luglio. Un netto peggioramento si ebbe a partire da quel giorno, dopo il tentativo, infruttuoso, di praticare una tracheostomia percutanea.
Alcune cause di complicanze sono tendenzialmente di natura iatrogena, in genere con un danno accidentale della parts membranacea durante la procedura di confezionamento della tracheostomia.
In proposito è annotato che, "nonostante la tecnica non è parsa particolarmente indaginosa, è comparso enfisema sottocutaneo. E' stata rimossa la cannula tracheostomica. Eseguita FBS (fibroscopia- nota del consulente) che non evidenzia lesioni della parete tracheale".
Lo stesso giorno, a causa di un grave guasto alla rete elettrica del reparto, la paziente fu trasferita presso l'U.O. di rianimazione del presidio ospedaliero (OMISSIS). In proposito, non è noto su quali attività assistenziali della paziente aveva inciso il "guasto elettrico" né se anche tutti gli altri pazienti furono trasferiti presso altre strutture per la medesima ragione. Di certo, se - come annotato in cartella clinica, "la tecnica (tracheostomica- nota del consulente) non è parsa particolarmente indaginosa", è assai verosimile che la lacerazione tracheale fu causato da un errore di tecnica.
La consulenza di chirurgia toracica ha consentito di evidenziare una lesione a tutto spessore della parete latero-posteriore destra a 4 cm dalla carena, comunicante con il mediastino, confermata con la TAC del torace del 21.07.15 ("ampia soluzione di continuo nella parte tracheale postero-laterale destra, con presenza di raccolte di tipo ascessuale in adiacenza e posteriormente alla trachea, a livello della carena e sottocarenali").
In data 21.07.15 la paziente venne condotta in sala operatoria per intervento combinato di chirurgia toracica e ORL a causa della perforazione della trachea cervicale e segni di mediastinite.
Il 30.07.15 le condizioni generali erano critiche e fu indicato intervento chirurgico per colecistectomia mentre vi era assenza di ulteriori perdite di liquido purulento dal drenaggio ispirativo mediastinico e dal drenaggio pleurico.
Tuttavia, in sala operatoria la paziente presentò desaturazione improvvisa non responsiva alle modifiche della ventilazione pertanto si decise di soprassedere all'intervento chirurgico. Fu posizionato un secondo drenaggio pleurico con fuoriuscita di notevole aria e versamento ematico.
La TAC di controllo del torace e addome mostrava invariata la lesione tracheale ma netto peggioramento del quadro parenchimale polmonare con un completo consolidamento del polmone destro, addensamenti multipli del polmone sinistro ed una raccolta mediastinica paratracheale destra (polmonite batterica non controllata dalla terapia antibiotica).
La diagnosi conclusiva di grave insufficienza respiratoria in paziente con shock settico concorda con il dato clinico ed anatomo istopatologico.
Giungendo alle conclusioni nella sequenza causale degli eventi patologici che hanno portato al decesso della sig.ra R.D., un ruolo concausale determinante ha assunto la lesione tracheale in corso il tentativo di tracheotomia.
Abbiamo riferito che questa procedura è gravata da complicanze precoci e tardive ma nel caso in questione, poiché l'intervento non richiedeva la soluzione di problemi tecnici di particolare difficoltà, si avvalora l'ipotesi di un errore tecnico nel corso del confezionamento della tracheotomia.
La grave complicanza insorta dovette essere gestita presso il P.O. di (OMISSIS), dove la paziente fu trasferita per guasto alla rete elettrica del reparto ma di fatto perché aveva comunque necessità di essere ricoverati in un reparto di chirurgia toracica.
Alla luce delle chiare conclusioni cui è giunto il consulente, risulta evidente che i sanitari abbiano errato nell'esecuzione della tracheotomia percutanea che, come sottolineato nella cartella clinica della paziente e più volte evidenziato dal perito, non è parsa particolarmente indaginosa, provocando con tale condotta una lesione tracheale all'origine dell'ennesima infezione (mediastinite).
L'intervento imperito dei sanitari del P.O. di (OMISSIS), tuttavia, non e', a parere del giudice, condizione necessaria e sufficiente nella verificazione dell'evento nefasto che, alla luce del quadro clinico critico della paziente, si sarebbe comunque verificato, secondo il criterio del più probabile che non.
Invero, il perito ha escluso che l'I.O. da Klebsiella sia ascrivibile al comportamento negligente del personale sanitario di (OMISSIS) in quanto: "non è possibile accertare, con i mezzi della consulenza tecnica medico legale, se durante il ricovero della Sig.ra R. si siano realizzate inosservanze delle comuni regole di prevenzione delle infezioni ospedaliere. Di certo si può affermare che la sig.ra R. era una paziente fortemente compromessa dal punto di vista immunitario a causa della polmonite già in atto, per cui il fatto che abbia contratto una sovra infezione batterica di origine nosocomiale non autorizza a ritenere che tale infezione derivi da una condotta colposa della struttura".
E' emerso pertanto in modo chiaro che l'errore del medico determinò non già la morte della persona, ma la perdita di chance per la paziente di sopravvivere, "sebbene le condizioni di salute fossero già particolarmente compromesse ed a rischio quod vitam a causa del diffuso processo pneumonico".
A conferma di detto assunto nella relazione peritale si legge che la lesione tracheale ha determinato la necessità di una procedura invasiva (tentativo di chiusura della breccia) in un soggetto già compromesso.
In altri termini, la lesione tracheale ha negato, alla paziente, la possibilità di essere trattata, mediante terapia antibiotica, per il solo processo broncopneumonico già in atto che, già di per sé gravato da elevata mortalità (generale circa il 35%, da Klebsiella 25%-50%) è stato ulteriormente aggravato dalla mediastinite, che ha anch'essa un'elevata mortalità (10%-50%).
Poiché nella perdita di chance l'oggetto della lesione non è più la vita e l'integrità psicofisica del danneggiato, bensì la possibilità di accedere ad un tentativo che probabilmente non avrebbe condotto ad un risultato diverso, ma che a livello di possibilità era pur sempre sussistente di cui il paziente è stato privato, i periti ritengono che la lesione tracheale abbia ridotto di circa il 50%-80% le possibilità di sopravvivenza della sig.ra R..
Secondo la Suprema Corte, si discorre di chance perduta quando "la condotta colpevole del sanitario ha avuto, come conseguenza, un evento di danno incerto: le conclusioni della CTU risultano, cioè, espresse in termini di insanabile incertezza rispetto all'eventualità di maggior durata della vita e di minori sofferenze, ritenute soltanto possibili alla luce delle conoscenze scientifiche e delle metodologie di cura del tempo. Tale possibilità - i.e. tale incertezza eventistica (la sola che consenta di discorrere legittimamente di chance perduta) - sarà risarcibile equitativamente, alla luce di tutte le circostanze del caso, come possibilità perduta - se provato il nesso causale, secondo gli ordinari criteri civilistici tra la condotta e l'evento incerto (la possibilità perduta) - ove risultino comprovate conseguenze pregiudizievoli (ripercussioni sulla sfera non patrimoniale del paziente) che presentino la necessaria dimensione di apprezzabilità, serietà, consistenza" (Cass. Civ. 28993/2019).
Inoltre, prosegue la Corte, "l'incertezza del risultato è destinata ad incidere non sulla analisi del nesso causale, ma sulla identificazione del danno, poiché la possibilità perduta di un risultato sperato (nella quale si sostanzia la chance) è la qualificazione/identificazione di un danno risarcibile a seguito della lesione di una situazione soggettiva rilevante (comunque afferente al diritto alla salute), e non della relazione causale tra condotta ed evento, che si presuppone risolta positivamente prima e a prescindere dall'analisi dell'evento lamentato come fonte di danno" (Cass. Civ. 28993/2019).
Nel caso trattato dal Tribunale di Lecce, di tale incertezza eventistica si tratta, posto che la perdita della possibilità di eseguire cure antibiotiche salvifiche alternative, conseguente alla lesione tracheale, quale risultato dell'operazione imperita del medico, equivale alla perdita della possibilità di accedere ad un risultato favorevole incerto, considerato tale in virtù dell'assenza di certezza in ordine allo sviluppo successivo del quadro clinico della paziente, alla base già gravemente compromesso.
In ragione di quanto sopra, il Tribunale di Lecce ha riconosciuto la responsabilità della ASL per l'attività professionale espletata non già per aver causato il decesso della paziente, ma per aver mediante la suesposta condotta imperita ridotto le possibilità di sopravvivenza ovvero di tentare cure salvifiche alternative.
I congiunti della paziente hanno chiesto il risarcimento del danno terminale patito dalla paziente per l'attesa lucida della morte, intervenuta dopo un apprezzabile intervallo di tempo.
In ordine a tale voce di danno, si ricorda la recente sentenza della Corte di Cassazione, Sez. 3 -, n. 26727 del 23/10/2018, secondo cui "in materia di danno non patrimoniale, in caso di morte cagionata da un illecito, nel periodo di tempo interposto tra la lesione e la morte ricorre il danno biologico terminale, cioè il danno biologico "stricto sensu" (ovvero danno al bene "salute"), al quale, nell'unitarietà del "genus" del danno non patrimoniale, può aggiungersi un danno morale peculiare improntato alla fattispecie ("danno morale terminale"), ovvero il danno da percezione, concretizzabile sia nella sofferenza fisica derivante dalle lesioni, sia nella sofferenza psicologica (agonia) derivante dall'avvertita imminenza dell'"exitus", se nel tempo che si dispiega tra la lesione ed il decesso la persona si trovi in una condizione di "lucidità agonica", in quanto in grado di percepire la sua situazione ed in particolare l'imminenza della morte, essendo quindi irrilevante, a fini risarcitori, il lasso di tempo intercorso tra la lesione personale ed il decesso nel caso in cui la persona sia rimasta "manifestamente lucida".
Nel caso di specie secondo il Tribunale di Lecce è pacifico che la sig.ra R. sia rimasta lucida fino al momento del decesso: dalle dichiarazioni testimoniali del genero e del cognato della vittima emerge infatti che quest'ultima sia sempre stata consapevole delle criticità della sua condizione di salute e cosciente dell'imminenza della morte, tanto da chiedere ad entrambi di pregare insieme e di pregare per lei. Circostanza da cui si deve necessariamente desumere che ella fosse ormai consapevole che si trattasse delle sue ultime ore di vita.
Si riconosce pertanto ai ricorrenti, familiari della vittima, il pregiudizio iure hereditatis in termini di danno terminale unitariamente inteso.
Il Tribunale di Lecce scrive che, in caso di perdita di una "chance" a carattere non patrimoniale, il risarcimento non potrà essere proporzionale al "risultato perduto" (nella specie, maggiori "chance" di sopravvivenza di un paziente al quale non era stata diagnosticata tempestivamente una patologia tumorale con esiti certamente mortali), ma andrà commisurato, in via equitativa, alla "possibilità perduta" di realizzarlo (intesa quale evento di danno rappresentato in via diretta ed immediata dalla minore durata della vita e/o dalla peggiore qualità della stessa); tale "possibilità", per integrare gli estremi del danno risarcibile, deve necessariamente attingere ai parametri della apprezzabilità, serietà e consistenza, rispetto ai quali il valore statistico-percentuale, ove in concreto accertabile, può costituire solo un criterio orientativo, in considerazione della infungibile specificità del caso concreto.
In ragione di tutti gli elementi sopra menzionati, il Tribunale procede alla quantificazione dei danni secondo le Tabelle del Tribunale di Milano in funzione del numero di giorni della sofferenza terminale: Euro 30.000,00 per i primi tre giorni ed Euro 28.037,00 dal quarto al trentaseiesimo giorno, per un totale di Euro 58.037,00.
Tali importi sono poi ridotti del 30%, in ragione delle probabilità di morte accertate dal consulente (che ha stimato la sopravvivenza al 50-80%), giungendo alla somma complessiva di Euro 40.625,90, da ripartire tra gli attori nelle misure di 1/3 al coniuge e i restanti 2/3 in parti uguali tra i figli.
Si ritiene altresì di dover riconoscere ai ricorrenti il pregiudizio dagli stessi subito per la perdita di chance di continuazione del rapporto parentale con la sig.ra R..
Orbene, avendo gli attori già assolto in relativo onere probatorio circa l'an dei danni richiesti, valgano per la liquidazione del pregiudizio non patrimoniale, vantato iure proprio, le seguenti considerazioni.
Anche la valorizzazione del danno perdita del rapporto parentale, inteso come perdita di chance del legame affettivo, deve seguire un criterio di giudizio equitativo. Si ritiene perciò di utilizzare a tal fine come base di calcolo le già menzionate tabelle del Tribunale di Milano aggiornate ad oggi.
Sulla base di tali Tabelle il Tribunale di Lecce ritiene congrua la somma di Euro 230.000,00 per ciascun figlio e per il marito.
Trattandosi di perdita di chance e non di danno effettivo conseguente alla lesione del rapporto parentale, anche detti importi devono essere ridotti del 30 % in virtù della percentuale di probabilità di sopravvivenza accertata dal consulente (5080%), addivenendo ad un totale di Euro 162.000,00 da liquidare in favore del coniuge e di ciascun figlio.
Quanto al danno patrimoniale, gli attori hanno poi chiesto il risarcimento del pregiudizio subito nel proprio patrimonio dal venir meno del guadagno apportato dalla vittima.
Hanno dedotto infatti che la sig.ra R. contribuiva al fabbisogno della famiglia insieme al marito, percependo un reddito da lavoro pari a circa 12.000 Euro annui. Avuto riguardo ai 2 figli conviventi e disoccupati e al basso reddito di quello occupato, al costo della vita e ai redditi da lavoro percepiti dal marito, secondo parte ricorrente la vittima destinava alla famiglia circa Euro 8.000,00 all'anno. Moltiplicando detta somma per almeno 24 anni di sopravvivenza del marito dal decesso della donna, i ricorrenti hanno chiesto circa 192.000,00 Euro prevalentemente per il marito ed una minor somma per i figli fino al compimento di 35 anni ciascuno.
Sul punto la giurisprudenza ha chiarito che "la liquidazione del danno patrimoniale da lucro cessante, patito dalla moglie e dal figlio di persona deceduta per colpa altrui, e consistente nella perdita delle elargizioni erogate loro dal defunto, se avviene in forma di capitale e non di rendita, va compiuta, per la moglie, moltiplicando il reddito perduto dalla vittima per un coefficiente di capitalizzazione delle rendite vitalizie, corrispondente all'età del più giovane tra i due; e per il figlio in base ad un coefficiente di capitalizzazione d'una rendita temporanea, corrispondente al numero presumibile di anni per i quali si sarebbe protratto il sussidio paterno; nell'uno, come nell'altro caso, il reddito da porre a base del calcolo dovrà comunque: (a) essere equitativamente aumentato, per tenere conto dei presumibili incrementi che il lavoratore avrebbe ottenuto, se fosse rimasto in vita; (b) essere ridotto della quota di reddito che la vittima avrebbe destinato a sé, del carico fiscale e delle spese per la produzione del reddito" (Ord. Cass. Civ. n. 6619/18).
Nel caso che ci occupa, alla luce della documentazione allegata dagli attori, il Tribunale di Lecce ritiene congruo riconoscere e liquidare il danno patrimoniale da lucro cessante in termini di danno futuro occorso nel patrimonio dei figli e del coniuge della vittima nei termini che seguono.
La sig.ra R. percepiva redditi da lavoro per un valore medio di circa 12.000,00 Euro annui, come da dichiarazioni dei redditi prodotte in atti, mentre il sig. C.C., marito della vittima, percepiva un reddito di circa 6.000,00 Euro annui, la figlia S. di Euro 3.000,00 annui e i due figli M. e C. risultavano all'epoca disoccupati.
Appare evidente come la fonte di reddito prevalente da destinare ai bisogni della famiglia fosse proprio quella derivante dal lavoro della sig.ra R. e che pertanto sia presumibilmente corrispondente al vero che la stessa destinasse circa 8.000,00 Euro per il menage familiare.
Si ritiene altresì di dover valorizzare la circostanza che la sig.ra R. sarebbe andata in pensione dopo pochi anni e che, divenuti economicamente indipendenti tutti i figli, la stessa avrebbe fornito un contributo economico inferiore a quello della data del decesso. Si aggiunga, altresì, che si tratta della previsione ad oggi di importi che presumibilmente la vittima avrebbe destinato ai familiari, per cui è necessario un correttivo al ribasso in ragione dell'incertezza del futuro che si sarebbe realmente avuto.
Per tale ragione, alla luce della giurisprudenza sopra richiamata e applicando i coefficienti di capitalizzazione previsti dal D.M. 22 novembre 2016 pubblicato in gazzetta ufficiale n. 295 del 19/12/2016, si ritiene di dover provvedere come segue:
- al marito si riconosce il danno di 150.000,00 Euro, tenendo conto del maggiore contributo a lui fornito dalla moglie e della circostanza che, divenuti indipendenti i figli, solo il coniuge avrebbe continuato a beneficiare del contributo della moglie, presumibilmente da ridursi a causa dell'indipendenza economica dei figli;
- al figlio A.C., ormai di (OMISSIS) anni al momento di decesso della madre e dunque in età idonea a reperire un lavoro e a rendersi economicamente autosufficiente, non si riconosce alcun importo;
- alla figlia S.G., di anni (OMISSIS) al momento del decesso della madre e già dotata di lavoro con reddito ridotto, si riconosce un danno nell'importo di Euro 5.000,00;
- al figlio M.L., di soli (OMISSIS) anni al momento del decesso della madre, 12.000,00 Euro ciascuno.
Anche tali importi vengono ridotti del 30%, in ragione della natura del danno riconosciuto.
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