Il Tribunale Penale di Treviso, con la sentenza n. 1047 del 24 novembre 2022, ha condannato alla pena di sei mesi di reclusione una ginecologa che, ritardando il parto cesareo, contrariamente a quanto previsto dalle linee guida, ha causato la morte di una bambina.
Riportiamo i passi principali della sentenza e, in particolare, quelli della perizia che ha dettagliatamente individuato gli errori commessi dall’imputata.
L’accusa alla ginecologa
All’imputata, nella qualità di medico-chirurgo ginecologo in ambito ospedialiero, è stato contestato il reato di omicidio colposo, perché per imperizia, negligenza ed imprudenza, consistita nell’applicare una ventosa ostetrica, benché non vi fossero le condizioni favorevoli a tale manovra e nell’eseguire tardivamente il taglio cesareo, cagionava la morte alla neonata che decedeva due giorni dopo il parto.
La ginecologa è stata anche accusata di lesioni personali colpose aggravate nei confronti della partoriente consistite in lacerazione vaginale, con conseguente malattia guarita in un tempo inferiore ai venti giorni.
Con l’aggravante di cui all’art. 590 secondo comma c.p., per aver cagionato alla donna una lesione grave, consistita nell’indebolimento permanente dell’organo della riproduzione.
Come si è svolto il parto
Dalle dichiarazioni e dalla documentazione acquisita agli atti è emerso quanto segue.
La donna nel 2012 ha avuto una prima gravidanza, sorta spontaneamente e terminata con un aborto al terzo mese con conseguente raschiamento della cavità uterina.
Nel maggio 2013 si è sottoposta ad un intervento di metroplastica per utero sub-setto per rimuovere la “zona cicatriziale che poteva essere la causa di queste mancate gravidanze e concepimenti e anche dell’aborto“.
A ottobre 2015, dopo due tentativi falliti nel 2014, all’età di 38 anni è rimasta incinta con la procreazione medicalmente assistita.
Nell’arco dei primi tre mesi di gravidanza ha avuto dei distacchi amniocoriali perché, per la condizione genetica di cui è portatrice – che comporta problemi di coagulazione con aumento del rischio trombotico – si è dovuta sottoporre ad una terapia anticoagulante che ha aumentato il sanguinamento a livello uterino.
Dopo i primi tre mesi, in cui è stata molto a riposo, la gravidanza è proseguita senza grossi problemi ad eccezione di qualche contrazione e della presenza di un importante gonfiore alle gambe.
Recatasi più volte presso il Pronto Soccorso per le perdite ematiche e le algie pelviche, in alcune occasioni è stata visitata dall’imputata e, precisamente, a novembre del 2015, a febbraio 2016 ed il 13.6.2016. È stata, poi, la stessa imputata a farle la visita prericovero per aprire la cartella clinica.
Ad ogni accesso ed, in particolare, a quello per la visita pre-ricovero, la donna ha “sempre fatto presente tutto, dalla mutazione della coagulazione, al …pregresso intervento (metroplastica)…tutta la terapia…gli edemi alle gambe“. Durante la visita pre-ricovero l’imputata le ha anche fatto l’ecografia “perché valutavano spesso la bambina perché era molto grande…” e le ha dato indicazioni di non aspettare il 7 luglio, data presunta del parto, ma di presentarsi il 4 luglio in quanto avrebbero fatto qualcosa “per cercare di velocizzare il parto per evitare che diventasse troppo grande la bambina” riferendole che, comunque, il parto cesareo non era necessario.
Sulla cartella clinica è stato evidenziato che si trattava di una gravidanza a rischio e la stessa partoriente ha riferito di aver visto che avevano messo sulla cartella un bollettino rosso.
La sera del 27 giugno 2016, dopo un po’ che erano iniziate le contrazioni, la donna si è recata al Pronto Soccorso, ma è stata rimandata a casa perché il medico di turno le riferiva trattarsi di false contrazioni.
Essendo le contrazioni aumentate durante la notte, il mattino seguente la donna è tornata all’Ospedale dove è stato disposto il ricovero e verso le 12.30 circa è stata portata in sala travaglio dove le è stato applicato un macchinario cardiotocografico per il monitoraggio delle contrazioni uterine e del battito fetale.
Alle 13.30 le hanno fatto il primo bolo di peridurale ed alle 15.30, non essendoci stato alcun progresso nella dilatazione rispetto alla mattina, le è stata somministrata via flebo l’ossitocina che è stata mantenuta fino all’ingresso in sala operatoria avvenuto poco dopo le 23.00.
Alle 17.00 le si sono rotte le acque ed alle 17.30 è stato fatto un altro bolo di peridurale.
Nel frattempo è stata fatta un’ecografia e la dott.ssa di turno le ha riferito che la bambina non era ancora incanalata, “era ancora in alto“.
Alle 20.00, non avendo alcuno stimolo urinario, le hanno messo un catetere temporaneo che le ha svuotato la vescica.
A quell’ora ha preso servizio l’imputata che le ha prescritto un antibiotico essendole, nel frattempo, salita la temperatura a 37.8°.
Tra le 20.00 e le 21.00 la paziente ha iniziato a sentire un dolore a livello epigastrico, a livello dello stomaco. Si trattava di un dolore continuo e fitto che è andato sempre più peggiorando.
Alle 21.00 non sentiva più le contrazioni ma “solo quel dolore fisso e continuo” ed è incominciato il vomito. Ha fatto presente la circostanza all’ostetrica, unica presente con lei in quel frangente, la quale ha chiamato l’anestesista per un altro bolo di peridurale che “non ha avuto alcun effetto”. Dalle ore 20:55 circa alle ore 22:03 il macchinario cardiotocografico, successivamente sostituito, non ha registrato le contrazioni uterine.
Quando l’imputata è tornata in sala parto verso le 21.30-21.40, la partoriente le ha fatto presente sia il dolore continuo e fisso a livello epigastrico, sia la circostanza che non sentiva più le contrazioni (“…non sentivo necessità di spingere, non sentivo assolutamente contrarsi la pancia“; “io non sentivo più niente, toccando la mia pancia era morbida…“.
Essendo piuttosto preoccupata per la situazione, chiedeva alla dott.ssa di fare un cesareo ma le veniva risposto di non lamentarsi per un po’ di reflusso: “per un po’ di reflusso cosa ti lamenti, ormai ci siamo…vai avanti“.
Il cesareo è stato chiesto più volte sia alla dottoressa che all’ostetrica (“tante volte. Tante, tante, tante. Gliel’ho chiesto alla Dottoressa e poi ho continuato a dirlo anche all’ostetrica“).
Dopo le 22.00, è arrivata in sala travaglio l’imputata con un ostetrico e, senza spiegarle il motivo, le hanno detto che avrebbero fatto nascere la bambina con la ventosa.
La donna riferiva che l’hanno sdraiata e ha iniziato l’ostetrico con la prima spinta sull’addome alle 22:22, per un totale di tre spinte con i primi tre tentativi di trazione con la ventosa da parte della ginecologa.
Poi, avendo la partoriente iniziato a sanguinare, l’ostetrico si è posizionato vicino alla ginecologa imputata ed il suo posto è stato preso da altra ostetrica, che ha praticato altre due spinte sull’addome, mentre l’imputata faceva la trazione con la ventosa. In quei frangenti la donna non avvertiva alcuna contrazione.
Verso le 23,00 è stato deciso di praticare il taglio cesareo, alle 23:12 sono entrati in sala operatoria, alle 23:18 hanno iniziato il parto cesareo ed alle 23:24 è nata la bambina.
L’intervento è terminato alle 00:53 del 29 giugno 2016 e la diagnosi finale indicata nel verbale operatorio è quella di “rottura d’utero. Distacco massivo di placenta”: la partoriente ha, infatti, subito una lacerazione vaginale, con conseguente malattia inferiore a 20 giorni, con indebolimento permanente dell’organo della riproduzione.
La neonata è stata immediatamente rianimata e trasferita all’Ospedale di (omissis) dove è deceduta due giorni dopo e, precisamente, il 30.6.2016.
Le indagini necrosettorie hanno permesso di riconoscere la regolarità di sviluppo del feto, mentre l’esame della placenta ha permesso di escludere la sussistenza di una patologia placentare gestazionale.
La causa del decesso è stata individuata in una “encefalopatia connatale sostenuta da patogenesi ischemico-emorragica, produttiva di ipossia tissutale“.
I periti del Tribunale ritengono che la ginecologa abbia tardato il cesareo
Dalle risultanze delle testimonianze e delle dichiarazioni dei periti e dei consulenti tecnici di parte, dalla documentazione acquisita agli atti e dagli esiti della perizia d’ufficio è emersa la responsabilità dell’imputata per il reato di omicidio colposo nei confronti della neonata.
I periti hanno, infatti, riconosciuto sia una condotta negligente che un’attività tecnica imprudente dell’imputata in nesso causale con l’evento morte.
La condotta negligente è stata individuata nel non aver tenuto in considerazione l’inerzia presentata dal travaglio ed i “particolari andamenti del tracciato cardiotocografico che documentavano la realtà di episodi di sofferenza fetale a partire dalle 18:00 del 28 di giugno del 2016 che si erano rimarcate, rese ancora più manifeste a partire dalle ore 21:50 circa della serata“. Circostanze, queste, che avrebbero dovuto indurre la ginecologa a procedere con un parto cesareo entro il limite massimo delle 21:45-21:50.
Il fatto che la struttura uterina della paziente era stata “sottoposta a cruentazione ostetrico-plastica circa 3 (tre) anni innanzi l’evento in esame” avrebbe dovuto essere tenuto in considerazione dalla ginegologa, in quanto tale circostanza avrebbe potuto comportare una contrattilità irregolare dell’utero che, poi, di fatto si è verificata.
Secondo i periti, infatti, sin dalle prime osservazioni ostetriche la donna aveva manifestato “un’evoluzione torpida del travaglio per ipocinesia uterina” e prova è data anche dal fatto che dalle 12:20 alle 15:15, nell’arco di ben tre ore, la dilatazione non era per nulla progredita essendo rimasta ferma sui 5 cm. registrati nella mattinata.
Anche se entrata in servizio alle 20.00 circa, l’imputata aveva tutti gli strumenti utili per conoscere qual era stato l’andamento del travaglio della partoriente ed il conseguente benessere fetale. Ciò, non solo in considerazione del meccanismo di trasmissione delle informazioni cliniche sui pazienti tra il medico di servizio primitivo a quello subentrante, ma anche della cartella clinica – che era stata aperta sulla base della visita pre-parto eseguita dalla stessa imputata – e del tracciato cardiotocografico in suo possesso.
Come evidenziato in perizia, il tracciato cardiotocografico controllato dall’imputata alle 21.50 circa, “mostra episodi ripetuti di decelerazione cardiaca fetale (ciò che significa ipoperfusione encefalica a danno del prodotto del concepimento) almeno dalle ore 20:30 senza che (tra le ore 20:55 e le ore 22:00 circa) risulti la corrispondente registrazione delle contrazioni uterine” che vengono nuovamente registrate a partire dalle 22:03 “risultando peraltro le contrazioni del tutto irregolari nella loro frequenza, sicuramente inefficaci”.
Le prime decelerazioni tardive compaiono già verso le 18:00 e ciò significa che l’encefalo fetale aveva già avvertito l’ipossia e stava perdendo la capacità di controllare il battito cardiaco.
Ciò è dimostrato dalla riduzione della variabilità del battito del feto perché, come ha precisato uno dei periti, quando il cervello è ben ossigenato la frequenza cardiaca va su e giù, oscilla mentre se la variabilità delle oscillazioni si riduce, come risulta nel caso di specie dal tracciato cardiotocografico, con oscillazioni inferiori ai cinque battiti può voler dire solo due cose: – o il bambino sta dormendo e, quindi, il cervello non controlla il cuore; – o il bambino è sveglio e, quindi, il cervello sta perdendo la capacità di controllare la frequenza cardiaca ed è già un cervello ipossico per mancanza di flusso di sangue sufficiente.
Nel caso di specie, però, la variabilità si era ridotta al di sotto dei 5 battiti “per un tempo tanto prolungato da non poter essere più ascritta a sonno fetale, bensì alla progressiva perdita di controllo dell’attività cardiaca da parte del cervello fetale, dovuta ad ingravescente sofferenza ipossica“.
Secondo i periti già alle 21:00 le decelerazioni cardiache fetali avevano assunto una condizione ripetitiva/persistente per arrivare, poi, ad un tracciato “inaccettabile” alle 21:50 a seguito del quale la ginecologa ha dato indicazioni ai collaboratori sanitari “per una condotta di attesa vigile“.
Alle 21:45/21:50 dopo aver visionato il tracciato, quindi, la dott.ssa non avrebbe dovuto dare indicazioni per una condotta di vigile attesa, ma avrebbe dovuto procedere ad estrarre il feto il più celermente possibile attraverso il taglio cesareo, “in quanto modalità nel caso in esame concretamente più affidabile e veloce“. L’attività tecnica imprudente, quindi, posta in essere dall’imputata è consistita nell’aver cercato di ottenere l’espulsione del feto attraverso l’applicazione della ventosa e delle manovre di Kristeller, anziché attraverso un parto cesareo.
I periti hanno decisamente chiarito che la manovra di Kristell non va fatta se non ci sono contrazioni uterine “perché è come se si premesse su un otre vuoto, su un otre senza forma…l’utero deve avere il suo tono sennò, se si spinge, l’utero si rompe“.
Evento, quest’ultimo, che, poi, di fatto si è verificato.
Secondo i periti, infatti, è a causa della manovra di Kristell che è stato rotto l’utero che, poi, ha comportato il distacco della placenta.
Il parere dei periti “di imprudenza” sulla tecnica utilizzata dall’imputata per estrarre il feto è chiara e non lascia adito a dubbi. Si parla di “imprudenza inaccettabile“, “errore imperdonabile” che ha comportato un aggravio dello stato ipossico del feto.
Ipossia che, secondo i periti, è stata determinata dalla mancanza di flusso di sangue sufficiente dovuta alle difficoltà di contrazione uterina, ma molto probabilmente anche da cause di natura infiammatoria, e successivamente aggravata dal ritardo verificatosi nel tentativo di parto con la ventosa e le manovre di Kristell e dal successivo distacco dell’utero e della placenta.
Il giudizio controfattuale
Il giudizio controfattuale è quello con cui ci si deve chiedere cosa sarebbe successo se il medico avesse agito diligentemente.
L’evento lesivo per la partoriente e mortale per la neonata si sarebbe comunque verificato?
Ebbene, sulla base di un giudizio ex ante i periti hanno pacificamente ritenuto che, se alle 21.45/21:50 la ginecologa, dopo aver visto il tracciato, avesse deciso di procedere con una “cesareizzazione” l’evento morte non si sarebbe verificato.
Nella perizia si legge: “…l’intervento di cesareizzazione avrebbe, se condotto alle ore 21:45 circa, evitato l’irreversibilità dell’insulto ipossico ed il decesso della neonata“, anche se non avrebbe evitato verosimili manifestazioni menomative.
Ciò che è emerso dall’istruttoria dibattimentale è stata proprio una sottovolutazione da parte della ginecolgoga sia dell’anamnesi della paziente (precedente aborto, intervento metroplastico su utero sub-setto, il rischio trombotico dovuto al deficit congenito del gene MTHFR, una gravidanza medicalmente indotta), sia dell’andamento del travaglio e delle condizioni cliniche della stessa (ipocinesia uterina, mancanza di contrazioni, ripetuti episodi di decelerazione cardiaca fetale, aumento della temperatura corporea, vomito, forti dolori a livello epigastrico) nella consapevolezza di un feto di grande dimensioni.
Elementi, questi, che – come rilevato dai periti – avrebbero dovuto indurla ad effettuare dei controlli più frequenti e valutazioni dirette ed a decidere già verso le 21.45/21.50 di procedere immediatamente con l’estrazione del feto con un parto cesareo – ossia nel modo meno traumatico possibile considerato che il feto era già in sofferenza – che, peraltro, era stato richiesto più volte anche dalla paziente.
Nel caso di specie non c’era alcuna controindicazione ad un parto cesareo che, come precisato dai periti, “garantisce la buona salute del bimbo e della madre se fatto tempestivamente“.
Il Tribunale condanna la ginecologa
Il Tribunale, all’esito dell’esame dei testimoni e della perizia di cui si è parlato, ha ritenuto che sia evidente la sussistenza del nesso di causalità tra la condotta omissiva dell’imputata e l’evento.
Invero, se l’imputata alle 21.50 avesse deciso di procedere con il parto cesareo anziché dare indicazioni di una condotta di attesa vigile, il parto avrebbe potuto avvenire alle 22.10 circa ed, in quel caso, con un elevato grado di probabilità vicino alla certezza il decesso della bambina non avrebbe avuto luogo.
Poiché prima della sentenza la partoriente ha rimesso la querela contro il medico per il reato di lesioni personali aggravate, il giudice dichiare non doversi procedere per tale fatto.
Per quanto riguarda invece il reato di omicidio colposo, il Tribunale ribadisce che è stata l’esecuzione tardiva del cesareo a causare la morte della neonata dopo due giorni dal parto e lo stato ipossico della stessa è stato aggravato dal tentativo di estrarla con la ventosa.
Il fatto che sia stato accertato che il parto cesareo avrebbe dovuto essere eseguito ancor prima delle 22:34 non rende diversa “la sostanza” della contestazione.
Quindi, ritenuto sussistere i presupposti per il riconoscimento delle attenuanti generiche in considerazione dell’incensuratezza dell’imputata e del risarcimento del danno avvenuto prima dell’emissione della sentenza, condanna l’imputata alla pena di mesi sei di reclusione con il beneficio della sospensione condizionale della pena.
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4 Comments
E’ inammissibile che ancora succedano cose del genere. Secondo me dovrebbero esserci sempre almeno due ginecologi in sala parto, in modo che possano confrontarsi sul da fare. Io ho avuto un’esperienza terribile durante il parto e per poco mio figlio non rimaneva invalido. Purtroppo non ho mai avuto il coraggio di fare causa e ormai sono passati tanti anni. Complimenti per il lavoro che fate. Piera da Ravenna
La ringrazio Signora.
Dove posso rivolgermi alla vostra associazione?
Salve Enzo, non siamo una associazione ma uno studio legale composto da più avvocati in tutta Italia che si avvale di consulenti medici legali e specialisti. Sul nostro sito trova sia le sedi principali che gli studi legali affiliati. Comunque operiamo in tutta Italia e il primo colloquio possiamo farlo telefonicamente o tramite videocall.