Riportiamo la sentenza numero 161 del 2018 con cui il Tribunale Civile di Rieti ha riconosciuto a una paziente il risarcimento del danno iatrogeno differenziale, per perdita della vista da un occhio a causa di responsabilità medica per glaucoma mal curato.
Il danno iatrogeno differenziale consistente nell’aggravamento della patologia, o in una nuova patologia, conseguenza dell’inadempimento del sanitario, che si sarebbe verificata in misura minore in ragione della preesistente condizione del paziente al momento dell’accettazione.
Quindi, anche se la paziente molto probabilmente avrebbe perso la vista anche senza l’intervento dei sanitari, il risarcimento le è dovuto perché essi hanno comunque anticipato l’evento dannoso.
Il glaucoma
Come sempre, prima di procedere all’analisi giuridica del caso, riportiamo la definizione della malattia di cui è affetto il paziente che ha fatto causa ai medici.
Parliamo in questo caso del glaucoma, che secondo il Ministero della Salute è una malattia cronica degenerativa che interessa quasi sempre entrambi gli occhi e colpisce il nervo ottico.
Solo in alcuni casi può manifestarsi in forma acuta, con violento dolore all’occhio, nausea, forte irritazione e con pressione oculare molto elevata.
Quasi sempre il glaucoma è dovuto a un aumento della pressione interna dell’occhio che causa, nel tempo, danni permanenti alla vista che sono accompagnati da: riduzione del campo visivo (si restringe lo spazio che l’occhio riesce a percepire senza muovere la testa), alterazione della “testa” del nervo ottico visibile all’esame del fondo oculare.
Una semplice visita oculistica può consentire di diagnosticare un glaucoma in fase iniziale o ancora non grave.
È necessario, quindi, sottoporsi con regolarità a controlli oculistici, specialmente in presenza di fattori di rischio: età (dopo i quarant’anni), casi in famiglia.
I fatti di causa
Una paziente citava in causa l’ospedale ove era stata in cura, chiedendo il risarcimento dei danni subiti per omesso od incompleto trattamento antiglaucoma, in soggetto già affetto da grave ipovisus bilateralmente, che aveva comportato un notevole aggravamento della capacità visiva.
In particolare riteneva sussistente il nesso causale tra la condotta sanitaria colposa ed il danno biologico, posto che, alla sospensione della terapia farmacologica che era stata disposta, non aveva fatto seguito l’instaurazione di idoneo presidio terapeutico sostitutivo; che ne derivava che un repentino aumento della pressione intraoculare aveva causato alla paziente un ulteriore peggioramento dell’ipovisus in occhio sinistro già duramente provato; che il realizzarsi del danno risultava correlato alla mancata somministrazione di terapia farmacologica mirata che avrebbe dovuto essere condotta in epoca immediatamente successiva alla sospensione di quella sino ad allora praticata; che risultava definitivamente compromesso il recupero dell’acuità visiva dell’occhio interessato.
La consulenza tecnica d’ufficio
In corso di causa veniva svolta C. T. U. medico-legale che ha fornito la prova dell’inesatto adempimento, da parte dei sanitari inseriti nella struttura, dell’obbligazione professionale e del nesso causale tra il trattamento farmacologico malamente praticato ed i danni riportati dall’attrice.
Secondo la C. T. U., i profili di colpa nella condotta dei sanitari sono consistiti:
1) nell’avere i medici modificato, riducendola, la terapia antiglaucomatosa della paziente senza contestualmente adottare trattamenti sanitari idonei a bilanciare gli scompensi derivanti dalla sospensione dei farmaci, di cui sopra, specificamente finalizzati al contenimento della pressione intraoculare;
2) nel non avere i medici prescritto una visita oculistica di controllo per il monitoraggio della pressione intraoculare dopo la modificazione della terapia, né effettuato un controllo sulla tonometria oculare, al fine di monitorare l’evoluzione dei suddetti valori pressori;
3) nell’avere i sanitari male interpretato la cefalea insorta, evidente sintomo di aumento della pressione intraoculare senza richiedere, anche all’esito di tale evenienza, una visita oculistica di controllo.
Le conseguenze pregiudizievoli per l’attrice, sotto il profilo del nesso causale tra la condotta e l’evento dannoso, sono consistite nell’aumento della pressione intraoculare, nel persistere di detto aumento – a causa della mancanza di un controllo della tonometria oculare – e nell’avere lo stesso senz’altro determinato il repentino aggravarsi del deficit visivo di cui già soffriva la paziente, posto che, a seguito della modifica della terapia antiglaucomatosa, la pressione intraoculare è tornata a livelli accettabili, non dannosi per la vista dell’attrice.
Il Tribunale dà ragione alla paziente
Alla luce delle considerazioni della C. T. U., il Tribunale ha ritenuto accertata la responsabilità contrattuale dell’Ospedale in ordine ai fatti di causa, ai sensi e per gli effetti dell’art. 1218 c. c., disposizione che a fronte del dimostrato inadempimento, pone a carico del debitore inadempiente l’onere di provare l’assenza di colpa e cioè che l’inadempimento sia stato determinato da impossibilità della prestazione per causa a sé non imputabile; prova nella specie non fornita dalla difesa della convenuta.
Venendo allo scrutinio del nesso causale tra l’inadempimento ascrivibile alla struttura sanitaria ed i danni sofferti dall’attrice, è ben vero che essendo il glaucoma “una malattia progressiva ed irreversibile, in cui il danno alla vista può essere notevolmente rallentato dall’applicazione della corretta terapia, ma spesso non può essere arrestato” e risultando tale profilo senz’altro presente anche nella condizione della paziente “…che già prima del ricovero, in corso di terapia antiglaucomatosa sostanzialmente corretta ed adeguata, aveva comunque già subito la perdita completa della vista nell’occhio destro e la perdita di una parte rilevante dell’acuità visiva nell’occhio sinistro”, con ogni probabilità “…anche se la periziando non avesse mai interrotto una adeguata terapia antiglaucomatosa, il decorso progressivo ed irreversibile della malattia avrebbe determinato, in un congruo lasso di tempo, la perdita totale della vista anche nell’occhio sinistro”, prognosi confermata anche dal decorso della malattia successivo ai fatti di causa.
Tuttavia, la considerazione che la paziente avrebbe con ogni probabilità, in un arco di tempo più o meno dilatato, perso comunque la vista anche in assenza dell’errore medico di che trattasi, nulla ha a che vedere con il dato di fatto costituito dal pregiudizio comunque arrecato all’attrice, in termini di lesione all’integrità fisica, quale effetto dell’erroneo trattamento praticato dai sanitari dell’Ospedale che, costituendo conseguenza eziologicamente riconducibile ex artt. 1223 c. c., 40 e 41 c. p. – disposizioni, queste ultime, notoriamente applicabili anche al diritto civile – all’improvvida condotta dei sanitari incardinati nella struttura, non può non dare la stura al risarcimento del danno non patrimoniale-conseguenza in favore della paziente ed a carico dell’azienda, ai sensi e per gli effetti degli artt. 2043, 2059 c. c. e 32 Cost.
Come viene quantificato il risarcimento?
Ai fini della liquidazione equitativa del danno non patrimoniale scaturente dalla lesione dell’integrità psico-fisica ex artt. 1226 e 2056 c. c., il Tribunale di Rieti ritiene di applicare le tabelle milanesi, anche a seguito della nota sentenza della Corte di Cassazione Civile sezione III n. 12408 del 7.6.2011, che ha individuato nei valori di riferimento per la liquidazione del danno alla persona adottati dal tribunale milanese, i parametri da ritenersi equi e cioè in grado di garantire la parità di trattamento e da applicare in tutti i casi in cui la fattispecie concreta non presenti circostanze idonee ad aumentarne o a diminuirne l’entità.
In tale prospettiva, a seguito del supplemento di C. T. U. disposto dal Tribunale di Rieti, il consulente ha individuato il danno non patrimoniale sofferto dalla paziente quale conseguenza della lesione alla propria integrità psico-fisica nella differenza tra l’invalidità riscontrata in capo all’attrice a seguito dell’erroneo trattamento sanitario (80%) e l’invalidità permanente preesistente (63%), così quantificando il pregiudizio direttamente riconducibile alla condotta dei sanitari, nella percentuale del 17% (80%-63%).
Ciò posto, ai fini della quantificazione dell’ammontare del risarcimento dovuto deve, peraltro, osservarsi che ad avviso della giurisprudenza di legittimità, nell’ipotesi (che qui ci occupa) di danno cd. “iatrogeno differenziale” – consistente nell’aggravamento della patologia, o in una nuova patologia, conseguenza dell’inadempimento del sanitario, che si sarebbe verificata in misura minore in ragione della preesistente condizione del paziente al momento dell’accettazione – non può procedersi al calcolo del danno semplicemente sottraendo dalla percentuale di invalidità permanente in concreto verificatasi a seguito dell’errore medico la percentuale che comunque si sarebbe venuta a determinare anche in assenza di malpractice dei sanitari ed associando il valore monetario derivante dall’applicazione delle tabelle alla risultante così ottenuta.
Al riguardo è stato, infatti, osservato che “In tema di responsabilità medica, allorché un paziente, già affetto da una situazione di compromissione dell’integrità fisica, sia sottoposto ad un intervento che, per la sua cattiva esecuzione, determini un esito di compromissione ulteriore rispetto alla percentuale che sarebbe comunque residuata anche in caso di ottimale esecuzione dell’intervento stesso, ai fini della liquidazione del danno con il sistema tabellare, deve assumersi come percentuale di invalidità quella effettivamente risultante, alla quale va sottratto quanto monetariamente indicato in tabella per la percentuale di invalidità comunque ineliminabile, e perciò non riconducibile alla responsabilità del sanitario” (Cass. Civ. n. 6341/14).
È errato, in sostanza, calcolare l’importo del danno effettuando l’operazione aritmetica sulle percentuali di invalidità, in quanto l’operazione corretta va fatta sul montante risarcitorio ricavabile dall’applicazione delle tabelle elaborate dal Tribunale di Milano, posto che in tali ipotesi l’ammontare del danno riconducibile alla responsabilità dei sanitari non corrisponde al punto risultante dalla differenza tra le due percentuali, ma va stabilito operando, per l’appunto, la differenza tra il montante risarcitorio contemplato dal sistema tabellare milanese per l’invalidità di cui è in concreto portatore il paziente e quello corrispondente all’invalidità ineliminabile e normalmente risultante dal trattamento medico (intervento chirurgico o altro): in tale prospettiva si rende, pertanto, necessario “prima” liquidare il danno in euro e “poi” effettuare le operazioni aritmetiche, non già effettuare i calcoli utilizzando i numeri delle percentuali di invalidità (v., da ultimo, App. Venezia, Sez. IV, 16.10.2017).
Ciò posto e venendo al caso di specie, il quadro clinico della paziente ha evidenziato – a seguito dell’inadempimento dei sanitari – un danno biologico permanente dell’80%, mentre l’invalidità che sarebbe comunque residuata quand’anche il trattamento medico fosse stato eseguito in modo conforme alle regole dell’arte corrispondeva al 63%: l’incremento dello stato invalidante è quindi del 17%.
È errato, tuttavia, procedere nel seguente modo: 80-63=17=cifra in euro; è corretto, viceversa, procedere traducendo in euro le percentuali e quindi effettuare la sottrazione.
In applicazione delle sopra indicate coordinate ermeneutiche occorrerà, allora, in prima battuta procedere alla traduzione in termini monetari dell’invalidità permanente “effettiva” riscontrata dal C.T.U. in capo all’attrice in misura pari, appunto, all’80%: invalidità che tenuto conto dell’età (76) della paziente all’epoca dei fatti di causa ed in applicazione delle citate tabelle milanesi, determinerebbe l’importo di Euro 596.819,00 all’attualità.
Può quindi passarsi a calcolare l’importo corrispondente all’invalidità del 63%, che sarebbe residuata in capo all’attrice se il trattamento fosse stato correttamente eseguito, che risulterebbe – sempre in applicazione delle tabelle milanesi – pari a Euro 431.542,00 all’attualità.
A questo punto, si rende necessario effettuare la sottrazione tra le predette somme (Euro 596.819,00-Euro 431.542,00), la cui risultante di Euro 165.277,00 costituisce, in definitiva, l’importo del danno non patrimoniale liquidabile a tale titolo all’attualità in favore dell’attrice, quale conseguenza dalla accertata lesione dell’integrità psicofisica in termini di aggravamento dell’invalidità permanente già in essere in capo alla paziente.
Il Tribunale riconosce un ulteriore danno non patrimoniale
La paziente ha chiesto anche il risarcimento di un ulteriore importo a titolo di danno non patrimoniale asseritamente derivante dalla “evidente lesione dei propri diritti fondamentali” a suo dire riconducibile all’errore medico per cui è causa.
Al riguardo, per giurisprudenza costante il risarcimento del danno non patrimoniale, fuori delle ipotesi tassativamente previste dalla legge, è consentito solo in caso di lesione di interessi costituzionalmente protetti, facenti capo alla persona, dalla quale scaturiscano pregiudizi non suscettibili di valutazione economica (si veda, da ultimo, Cass. civ., SS.UU., n. 26978/08).
Ebbene, nella fattispecie il C.T.U. ha riscontrato come l’erroneo trattamento medico praticato dai sanitari abbia determinato l’accelerazione di un processo degenerativo già in atto, in assenza della quale l’attrice avrebbe con ogni probabilità conservato il (sia pur) limitato visus dall’occhio sinistro per un periodo ulteriore di almeno 12 mesi rispetto alla data (15.03.2014) in cui è stata, viceversa, riscontrata la perdita totale della vista.
Non v’è dubbio, allora, che l’avere l’attrice perso la possibilità – sia pur in tale ridotto arco di tempo – di realizzare la propria persona e le proprie aspirazioni mediante l’uso (ancorché del tutto parziale e comunque limitato alle ordinarie incombenze domestiche) della vista, abbia provocato nella paziente la lesione del diritto costituzionalmente tutelato alla libertà di autodeterminazione in ordine alle proprie scelte esistenziali, ex art. 2 Cost., in termini di perdita, appunto, delle possibilità realizzatrici della persona umana, irrimediabilmente ed inevitabilmente pregiudicate dall’evento traumatico di che trattasi, che ad ogni evidenza ha comportato l’impossibilità o comunque l’estrema difficoltà, per la paziente, di compiere – nel citato periodo di 12 mesi – anche le attività più semplici della vita quotidiana implicanti la necessità di movimento fisico e di orientamento nello spazio, così limitando lo spettro (di per sé già oltremodo ridotto) delle possibilità e condizioni di realizzazione cui la stessa legittimamente aspirava.
In accoglimento della relativa domanda, pertanto, il Tribunale ha riconosciuto equitativamente in favore dell’attrice, a titolo di danno non patrimoniale da lesione dei diritti fondamentali della persona, nel senso poc’anzi precisato, l’ulteriore importo – tenuto conto dell’età della paziente (76 anni), delle condizioni in gran parte già compromesse della vista dell’attrice all’epoca dei fatti e della comunque limitata aspettativa di mantenimento del residuo visus in assenza dell’errore dei sanitari – di Euro 34.708,17 all’attualità.
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