Tra i vari casi di malasanità capita anche che il paziente riporti la morte per colpa medica e, conseguentemente, che i suoi familiari intendano “vederci chiaro” sulle cause del decesso.
Talvolta, per fare luce su quello che è accaduto e, quindi, per dimostrare se vi è stata colpa medica, bisogna sapere come richiedere l’autopsia.
L’autopsia
L’autopsia, detta anche esame post mortem, è l’esame di un corpo che viene eseguito da un medico legale ed è volto a rintracciare le cause che hanno condotto il soggetto alla morte.
L’esame può essere effettuato solo dopo che siano decorse almeno 24 ore dal decesso, salvo che vi sia particolare urgenza da accertare caso per caso.
L’autopsia può essere richiesta dal medico curante, dall’Ospedale, dalla Casa di Cura, ma anche dalla Magistratura o, come più spesso accade, direttamente dai parenti del defunto.
Differenze tra autopsia giudiziaria e riscontro diagnostico
L’autopsia, propriamente detta giudiziaria, è quella che viene disciplinata dall’art. 116 delle disposizioni di attuazione del codice di procedura penale, che prevede che, se per la morte di una persona sorge sospetto di reato, il procuratore della Repubblica accerta la causa della morte e, se lo ravvisa necessario, ordina l’autopsia, dopo aver compiuto le indagini occorrenti per l’identificazione.
Trattandosi di persona sconosciuta, ordina che il cadavere sia esposto nel luogo pubblico a ciò designato e, occorrendo, sia fotografato; descrive nel verbale le vesti e gli oggetti rinvenuti con esso, assicurandone la custodia.
Nei predetti casi la sepoltura non può essere eseguita senza l’ordine del procuratore della Repubblica.
Il disseppellimento di un cadavere può essere ordinato, con le dovute cautele, dall’autorità giudiziaria se vi sono gravi indizi di reato.
Il riscontro diagnostico è invece un’operazione anatomo-patologica che riguarda i cadaveri delle persone decedute senza assistenza medica, trasportati ad un ospedale o ad un deposito di osservazione o ad un obitorio, nonché i cadaveri delle persone decedute negli ospedali, nelle cliniche universitarie e negli istituti di cura privati quando i rispettivi direttori, primari o medici curanti lo dispongano per il controllo della diagnosi o per il chiarimento di quesiti clinico-scientifici.
Quindi, l’autopsia è eseguita per disposizione dell’autorità giudiziaria, d’ufficio o a seguito di denuncia, al fine di accertare se il decesso è conseguente ad un reato.
Ad esempio, se i familiari di un paziente deceduto ritengono che la morte sia dovuta a responsabilità medico-sanitaria, potranno chiedere che l’autorità giudiziaria disponga una perizia.
Il riscontro diagnostico, invece, è volto alla verifica anatomica della diagnosi clinica, al chiarimento dei quesiti clinico-scientifici, al riscontro di malattie infettive e diffusive o sospette tali, ai fini dell’igiene pubblica, all’accertamento delle cause di morte di deceduti senza assistenza medica, trasportati in ospedale o in obitorio, all’accertamento delle cause di morte delle persone decedute a domicilio quando sussiste dubbio sulla causa stessa.
L’autopsia disposta nel giudizio penale è utilizzabile anche in quello civile
Come abbiamo detto, i familiari del paziente morto per ipotesi di colpa medica, possono denunciare alla Magistratura il fatto e chiedere che venga disposta una autopsia per accertare se è stato commesso dai medici il reato di omicidio colposo.
Ebbene, se all’esito dell’autopsia il Pubblico Ministero riterrà che non vi sia stata responsabilità penale dei medici, chiederà l’archiviazione del procedimento.
I familiari potranno opporsi all’archiviazione impugnando la richiesta davanti al Giudice per le Indagini Preliminari.
Dopodichè, se il Giudice accoglierà la richiesta il procedimento verrà archiviato e, viceversa, se rigetterà la richiesta del P. M. il procedimento proseguirà.
Ma nel caso in cui i familiari della vittima volessero utilizzare i risultati della autopsia in una causa civile essa avrebbe rilevanza.
Secondo la Corte di Cassazione la risposta è si, sul presupposto che, se la relativa documentazione viene ritualmente acquisita al processo civile, le parti di quest’ultimo possono farne oggetto di valutazione critica e stimolare la valutazione giudiziale su di essa.
Riportiamo di seguito, per esteso, la sentenza della Corte di Cassazione che ha affermato questo principio, tenendo presente che il caso trattato era quello di una bambina deceduta per colpa medica consistente in errata diagnosi.
Cassazione civile sez. III, n. 16123/2010
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con la sentenza ora impugnata in cassazione la Corte d’appello di Trieste ha confermato la prima sentenza che aveva respinto la domanda risarcitoria proposta contro alcuni medici, la struttura sanitaria e le compagnie assicuratrici dal N. e dalla C.M., con riferimento a responsabilita’ medica nel decesso della loro figlia minore.
Il N. e la C.M. propongono ricorso per cassazione a mezzo di tre motivi. Rispondono con controricorso i dottori Ca.Ma., Ca.Fr. e M.M., nonche’ la struttura sanitaria, la Regione Autonoma Friuli Venezia Giulia, le Ass.ni Generali s.p.a. ed il Commissario Liquidatore della Gestione Stralcio ex USL n. (OMISSIS) “Goriziana”. I ricorrenti hanno depositato memoria per l’udienza.
Diritto
MOTIVI DELLA DECISIONE
I fatti risultano cosi’ accertati nel giudizio di merito: nella notte tra il (OMISSIS) la piccola N.L. (di anni (OMISSIS)) manifesta tipici sintomi influenzali (disturbi intestinali, vomito e febbre), sicche’ la pediatra dr. Ca. F., resa siffatta diagnosi, si limita a prescrivere un antipiretico, assunto dalla bambina per circa due giorni; il terzo giorno ((OMISSIS)), persistendo la febbre, lo stesso medico prescrive la somministrazione di antibiotico; il quarto giorno ( (OMISSIS)) la bambina manifesta una forte sintomatologia intestinale (gia’ presente all’inizio della manifestazione morbosa) che induce al ricovero press l’O.C. di (OMISSIS); qui giunge disidratata, tachicardica ed in tensione addominale, sicche’ trascorsi appena 45 minuti dall’ingresso, dopo la diagnosi di “addome acuto” se ne decide il trasferimento presso la struttura specializzata ” (OMISSIS)”; qui vengono svolti esami radiologici, attraverso i quali e’ riscontrata “la grossolana distensione gassosa del tenue e del colon, con livelli idroaerei” ed, a carico del polmone destro, “un addensamento in sede basale esteso al lobo medio”; ne segue la diagnosi di “addome acuto da peritonite” e la bambina e’ portata d’urgenza in sala operatoria per essere sottoposta a laparotomia esplorativa; svolte le indagini di laboratorio e strumentali, appena indotta l’anestesia la piccola muore per un arresto cardiaco da grave miocardite conseguente ad affezione virale verosimilmente influenzale, la quale ha interessato l’apparato respiratorio, evolvendosi poi in broncopolmonite accompagnata da sovrainfezione batterica.
Tutto questo accertato in fatto, la sentenza impugnata passa ad argomentare le ragioni per le quali ritiene (sulla base delle esperite consulenze) che tutti i medici coinvolti nella vicenda siano esenti da responsabilita’ professionale: 1) la pediatra dr. Ca. F. correttamente individuo’ la sindrome influenzale ed altrettanto correttamente indirizzo’ la terapia medica, anche quanto alla somministrazione di antibiotico (l’esame autoptico chiarira’ che effettivamente il polmone dx era interessato da infezione batterica estesa alla pleura ed evoluta in broncopolmonite); peraltro, in quella fase non s’imponeva l’esecuzione di una radiografia al torace (che forse avrebbe potuto mettere in evidenza il processo infiammatorio a carico del polmone dx) stante la prevalente sintomatologia addominale e l’assenza di sintomi a carico delle vie respiratorie; in ogni caso, visto che la radiografia non poteva essere eseguita ne’ in casa della paziente, ne’ presso lo studio della professionista, questa correttamente dispose l’immediato ricovero presso l’O.C. di (OMISSIS);
2) qui gioco’ un ruolo fondamentale lo stato di tensione addominale, furono eseguiti accertamenti di laboratorio e somministrate cure per una sospetta sepsi; anche la consulenza chirurgica fu in linea con la diagnosi di “addome acuto” con la quale, dopo circa tre quarti d’ora, fu disposto il trasferimento al “(OMISSIS)”;
3) qui la bambina fu sottoposta a numerosi esami di laboratorio e ad una radiografia del torace che consenti’ di identificare un processo infiammatorio a carico del polmone dx, con sospetta compromissione pleurica; tuttavia, l’assoluta prevalenza della sintomatologia addominale e le condizioni particolarmente gravi della paziente giustificarono il sospetto di una peritonite e la decisione di procedere a laparatomia esplorativa; ma l’induzione dell’anestesia provoco’ l’arresto cardiaco a causa di una miocardite a decorso in apparente determinata proprio dall’iniziale affezione virale.
In estrema sintesi, il giudice accerta che nella vicenda i medici incorsero in un errore diagnostico (l’affezione virale al polmone fu scambiata per una peritonite) ma ritiene che questo errore fosse giustificato dalle circostanze del caso, cosi’ come fu giustificata la scelta di procedere alla laparatomia esplorativa ed alla preliminare induzione dell’anestesia, che porto’ la bambina ad immediata morte.
Il supporto giuridico per pervenire a siffatta conclusione e’ rinvenuto dal giudice nella giurisprudenza di questa Corte, secondo la quale, perche’ l’ente ed i medici che ne sono dipendenti possano andare esenti, da responsabilita’ medica, e’ necessaria la dimostrazione che l’insuccesso non sia dipeso da mancanza di diligenza. E nella specie sarebbe stata resa la prova che tutti i medici nell’ambito delle rispettive competenze, usarono la dovuta diligenza qualificata, con conseguente inaddebitabilita’ a loro colpa del decesso della bambina.
Avverso questa struttura argomentativa i ricorrenti muovono una serie di censure, sotto il profilo della violazione di legge e del vizio della motivazione, alcune delle quali risultano fondate.
Occorre subito sgombrare il campo da quelle critiche che appaiono destituite di fondamento. La prima riguarda l’utilizzabilita’ in sede civile delle perizie espletate nel giudizio penale (in questo caso conclusosi con l’archiviazione); utilizzabilita’ sicuramente ammessa dalla giurisprudenza sul presupposto che, se la relativa documentazione viene ritualmente acquisita al processo civile (come e’ avvenuto nel caso in esame), le parti di quest’ultimo possono farne oggetto di valutazione critica e stimolare la valutazione giudiziale su di essa (tra le varie, cfr. Cass. 5 dicembre 2008, n. 28855). A parte resta il discorso, che si sviluppera’ in seguito, in ordine alla valutazione che di quelle perizie deve fare il giudice civile, necessariamente differente rispetto a quella fattane dal giudice penale.
Quanto alla questione di responsabilita’ per la mancata formazione di un consenso informato, essa risulta inammissibile in questa sede in quanto affatto nuova; ne’ i ricorrenti lamentano riguardo ad essa l’omessa pronunzia ex art. 360 c.p.c., n. 4 in relazione all’art. 112 c.p.c..
Altrettanto inammissibile e’ la censura concernente il fatto che sia l’autopsia, sia la perizia redatta su incarico del P.M. presso la Pretura circondariale di (OMISSIS) siano state eseguite da un professionista dipendente dall’Istituto (OMISSIS), parte in questo giudizio. A riguardo basta ribadire che la mancata proposizione dell’istanza di ricusazione del consulente tecnico d’ufficio preclude definitivamente la possibilita’ di far valere successivamente la situazione di incompatibilita’, con la conseguenza che la consulenza rimane ritualmente acquisita al processo (Cass. 25 maggio 2009, n. 12004).
Passando ora alle censure che il Collegio ritiene fondate, occorre premettere che il dibattito si concentra innanzitutto intorno al nesso causale tra il comportamento tenuto dai medici e l’evento mortale derivatone e che di recente questa Corte regolatrice, attraverso la sentenza a S.U. n. 576 dell’11 gennaio 2008 e’ pervenuta ad un importante arresto in tema di responsabilita’ civile, stabilendo che il nesso causale e’ regolato dal principio di cui agli artt. 40 e 41 c.p., per il quale un evento e’ da considerare causato da un altro se il primo non si sarebbe verificato in assenza del secondo, nonche’ dal criterio della cosiddetta causalita’ adeguata, sulla base del quale, all’interno della serie causale, occorre dar rilievo solo a quegli eventi che non appaiano (ad una valutazione ex ante) del tutto inverosimili, ferma restando, peraltro, la diversita’ del regime probatorio applicabile, in ragione dei differenti valori sottesi ai due processi: nel senso che, nell’accertamento del nesso causale in materia civile, vige la regola della preponderanza dell’evidenza o del “piu’ probabile che non”, mentre nel processo penale vige la regola della prova “oltre il ragionevole dubbio”.
Sicche’ – si aggiunge – sussistendo a carico del medico l’obbligo di espletare l’attivita’ professionale secondo canoni di diligenza e di perizia scientifica, il giudice, accertata l’omissione di tale attivita’, puo’ ritenere, in assenza di altri fattori alternativi, che tale omissione sia stata causa dell’evento lesivo e che, per converso, la condotta doverosa, se fosse stata tenuta, avrebbe impedito il verificarsi dell’evento stesso.
In questo caso, risulta accertato (lo si e’ gia’ detto in precedenza) che i professionisti incorsero in errore diagnostico e che quell’errore fu causa della morte della bambina, sottoposta ad anestesia finalizzata ad una inutile (e poi ineseguita) laparotomia esplorativa (l’esame autoptico ha escluso qualsiasi patologia a carico dell’intestino e del peritoneo della paziente). Per converso, puo’ dirsi, dunque, accertato che se i medici avessero compiuto una corretta diagnosi (ossia, avessero individuato l’affezione virale al polmone) e’ piu’ probabile che la paziente sarebbe sopravvissuta e meno probabile che sarebbe deceduta.
Risolto in questi termini il problema del nesso causale, occorre allora spostare l’attenzione sulla scusabilita’ dell’errore accertato, ossia se questo fu o meno cagionato da colpa professionale; in una ipotesi rispetto alla quale non risulta neppure dedotto che la prestazione implicasse la soluzione di problemi tecnici di speciale difficolta’ (art. 2236 c.c.).
A tal riguardo la sentenza impugnata ha individuato la regola giusta: ossia, ha stabilito che, in ragione della natura contrattuale del rapporto sottostante (presunzione semplice di responsabilita’ a carico sia degli enti che dei medici alle loro dipendenze – art. 1218 c.c.) l’onere della prova che l’insuccesso non sia dipeso da mancanza di diligenza (e, soprattutto, di perizia professionale specifica) incombe a carico dei medici e degli enti di appartenenza.
Tuttavia, pur avendo individuato la corretta regola, la sentenza non argomenta, in ordine all’esenzione di colpa professionale, in modo giuridicamente e logicamente appagante.
Di indubbio rilievo e’ la preliminare osservazione dei ricorrenti, i quali pongono in evidenza che a ben diversi esiti si sarebbe pervenuti se la patologia della piccola Lavinia fosse stata trattata da un solo professionista e non dai tanti susseguitisi in quei pochissimi giorni. L’eccessiva segmentizzazione della vicenda operata dal giudice ha fatto perdere di vista l’elemento essenziale che la connota: ossia, la mancanza di quella che nella scienza medica viene definita la “diagnosi differenziale”.
La sentenza fonda tutto il suo ragionamento intorno al fatto che la diagnosi di “addome acuto da peritonite”, poi rivelatasi errata, fosse “sul momento del tutto giustificata dai segni clinici e dai referti radiologici”; nulla dice circa la possibilita’ che quegli stessi sintomi e quegli stessi accertamenti, o altri da farsi, avrebbero potuto condurre non solo ad una diversa diagnosi, ma, soprattutto, all’individuazione di una situazione polmonare e cardiologica che non consentiva di sottoporre la paziente all’intervento esplorativo ed alla preliminare, indispensabile anestesia.
I ricorrenti hanno trascritto nel loro mezzo d’impugnazione ampi brani degli atti difensivi da loro esperiti (tra cui la consulenza di parte) in cui e’ riportata la letteratura medica che, nel porre in guardia il sanitario dal c.d. falso addome acuto (o pseudo addome acuto), raccomanda, prima di procedere ad una inutile e dannosa laparatomia esplorativa, di escludere tutte le piu’ frequenti cause extraperitoneali di addome acuto; tra queste, innanzitutto, le affezioni pleuropolmonari, le malattie vascolari, ecc. Sicche’, la stessa letteratura consiglia di accompagnare la radiologia addominale con un radiogramma toracico, per escludere, appunto, polmoniti ed altro.
A questi rilievi – che si sostanziano nella necessita’ e nella possibilita’ di pervenire ad una diversa diagnosi, cosi’ da escludere la nefasta scelta della laparatomia esplorativa – la sentenza non fornisce alcuna risposta, se non quella pressoche’ assiomatica della momentanea correttezza di quella scelta. Cosi’ come non spiega perche’, una volta decisa la strada della laparatomia, non fosse stata sondata la sostenibilita’ polmonare e cardiologica della preliminare anestesia.
Ma ad altre domande e’ necessario fornire risposta adeguata.
I giudici affermano che l’antibiotico (probabilmente risolutore dell’affezione batterica polmonare) fu prescritto dalla pediatra di base e successivamente somministrato. Ma i ricorrenti eccepiscono (facendo riferimento agli atti versati in causa) che la dr. Ca. F., nel corso della seconda visita, prescrisse l’antibiotico, con l’indicazione, pero’, di somministrarlo, in caso di persistenza della febbre, a partire dal giorno (OMISSIS). Si tenga conto che la paziente mori’ il giorno (OMISSIS), senza poter, dunque, assumere il farmaco. Fatto sta che il medico tenne in cura per quattro giorni la bambina, nei quali la visito’ due volte, senza prescrivere ne’ radiografia toracica, ne’ altri accertamenti chiarificatori del quadro patologico, disponendo il ricovero ospedaliero solo nel quarto giorno.
Quanto ai medici dell’Ospedale di (OMISSIS), la sentenza risolve il problema della loro responsabilita’ con l’affermazione che in quei 45 minuti di permanenza tutto quello che essi fecero (esame del sangue, fleboclisi di soluzione fisiologica, somministrazione di farmaci contro un’eventuale sepsi, consulto da parte del chirurgo, consiglio del trasferimento presso l’ospedale specializzato) era in linea con la diagnosi di addome acuto. Tuttavia, i giudici non forniscono risposta al rilievo dei ricorrenti: i medici di quell’ospedale esplicitamente esclusero che la bambina mostrasse sintomi di un’affezione all’apparato respiratorio (affezione, invece, poi riscontrata presso il (OMISSIS), dove l’anestesista pose in evidenza i rumori polmonari umidi bilaterali), ne’ alcunche’ rilevarono a carico dell’apparato cardiovascolare. Insomma, il ricorso pone in evidenza che la condotta imperita e negligente di questi medici introdusse e consenti’ il consolidarsi dell’errata diagnosi di peritonite, poi sviluppata fino alle estreme conseguenze dai professionisti del (OMISSIS), senza fornire alcuno spazio ad una differente diagnosi.
Passando, infine, alla responsabilita’ dei sanitari dell’Istituto Scientifico ad Alta Specializzazione (OMISSIS), ancor piu’ cogenti si fanno le irrisolte domande dei ricorrenti. Oltre ad insistere, attraverso puntuali e penetranti osservazioni, intorno al fatto che, per dati scientifici comunemente acquisti, l’addome acuto e’ sintomo di affezioni non solo addominali (peritonite) ma anche di processi patologici extra addominali (sicche’ – lo si ripete – lo stato in cui si presentava la paziente dava adito a diverse diagnosi), essi si chiedono perche’, prima di procedere alla laparatomia, quei medici non fecero eseguire (o non si accertarono che fossero state eseguite) tutte le indagini diagnostiche preoperatorie, semplici e routinarie che si dispongono sui pazienti da sottoporre ad interventi chirurgici di base. Soprattutto, pongono in rilievo che i sanitari (in particolare l’anestesista) non pretesero una radiografia standard del torace, che non solo avrebbe posto in sicura evidenza la vera malattia della quale soffriva la bambina (l’affezione polmonare), ma soprattutto avrebbe allarmato circa la possibilita’ per la paziente di sostenere l’anestesia; tutto cio’, benche’ l’anestesista avesse segnalato che “all’esame obiettivo del torace si apprezzano rumori polmonari umidi bilateralmente”.
Cosi’ come non svolsero semplici indagini dirette a diagnosticare la miocardite in atto.
Insomma, la sentenza, per tutte le ragioni sopra poste in evidenza, si manifesta viziata sia in diritto che nella motivazione; occorre cassarla e rimetterla ad altro giudice che, adeguandosi ai principi giuridici sopra enunciati, procedera’ ad nuova valutazione della vicenda giudiziaria. Il giudice del rinvio provvedera’ anche sulle spese del giudizio di cassazione.
PQM
La Corte accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte d’appello di Trieste, in diversa composizione, anche perche’ provveda sulle spese del giudizio di cassazione.
Così deciso in Roma, il 19 maggio 2010.
Depositato in Cancelleria il 8 luglio 2010
I nostri medici legali possono rappresentarti nel corso dell’autopsia
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Quando si difende una vittima di malasanità, per chiedere la punizione dei medici responsabili ed ottenere il risarcimento dei danni, non viene effettuata solo un’attività giuridica ma, per appunto, anche uno studio dal punto di vista medico, che viene svolto da nostri consulenti specializzati nelle varie branche della medicina.
Nello specifico, se a seguito della morte di un paziente la Magistratura dispone una perizia, i nostri avvocati avranno modo di incaricare un proprio consulente e partecipare per tramite di quest’ultimo all’esame.
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