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Lesione tendinea non diagnosticata: risarcita la nostra cliente
02/10/2023Tra i vari casi di responsabilità medica da cui discendono conseguenze dannose per i pazienti vi è quella della omissione o errata lettura di esami clinici, da cui emergevano patologie che, se curate in tempo, non avrebbero provocato danni.
Con questo articolo riportiamo il caso trattato dal Tribunale di Sassari, con sentenza n. 454/2023, relativo all’omessa diagnosi di meningioma al cervello di una paziente che, per tale motivo, ha riportato danni non patrimoniali per Disturbo dell'Adattamento con umore depresso ed elevazione dell'ansia di grado lieve-medio, con conseguenze pregiudizievoli anche a livello morale e di relazione.
Se anche tu o un tuo familiare avete subito danni del genere, vi invitiamo a contattare i nostri avvocati e medici legali per avere una perizia medico legale e ottenere il risarcimento.
I fatti di causa
Una donna ha convenuto in giudizio l’Azienda per la Tutela della Salute della Regione Sardegna (A.T.S.) contestando la responsabilità (omissiva colposa) del personale medico in servizio presso l'Ospedale di Ozieri.
Ciò perché non le sarebbe stato diagnosticato tempestivamente, nonostante la manifestazione di diversi sintomi (malessere intenso con polipnea, tremori diffusi a tutto il soma, trisma della muscolatura facciale, “mani da ostetrica”, “scosse”, braccia e gambe rigide e contratte, tremori diffusi agli arti, schiuma alla bocca, impossibilità all'eloquio, etc.) - fin dal primo accesso in Pronto Soccorso del dicembre 2014 (diagnosi ricevuta: stato d'ansia), seguito dagli accessi del 15/01/2015 (diagnosi ricevuta: attacco di panico in sindrome depressiva), del 01/04/2015 (diagnosi ricevuta: stato d'ansia per recente aborto spontaneo) e del 13/09/2016 diagnosi ricevuta: nessuna) - un meningioma al cervello, documentato dalla TAC e dall'esame RM encefalo effettuati presso l'Ospedale di Olbia solo nel gennaio 2017, poi rimosso chirurgicamente presso l'U.O. di Neurochirurgia dell'AOU integrata di Verona nel marzo 2017.
Su tali presupposti, l'attrice chiede il risarcimento di tutti i danni patiti per l'omessa diagnosi, patrimoniali (per aver dovuto rinunciare alla propria attività lavorativa di istruttrice di nuoto) e non, ivi compreso il danno biologico, morale, da perdita di chance, oltre a quello connesso alla impossibilità di provvedere in modo diretto alla gestione e cura della propria figlia (nata appena prima dell'intervento chirurgico del marzo 2017) ed alle ripercussioni sotto il profilo psichico e di relazione nei confronti della stessa neonata e di quello riconducibile al mancato allattamento, il danno conseguente allo stravolgimento delle abitudini di vita.
Inquadramento giuridico della vicenda e onere della prova
Il Tribunale preliminarmente procede ad un inquadramento giuridico del titolo di responsabilità ascrivibile alla struttura convenuta per la dedotta omissione (colposa) nelle prestazioni erogate a favore della paziente negli accessi al Pronto Soccorso dell'Ospedale di Ozieri del 2014, gennaio 2015, aprile 2015 e settembre 2016.
Come noto, risulta ormai pacifico che nell'ipotesi in cui il danneggiato agisca nei confronti della struttura sanitaria che ha erogato la prestazione a suo favore, la domanda vada esaminata nell'ottica della responsabilità contrattuale.
Secondo il consolidato orientamento giurisprudenziale, avallato dalle Sezioni Unite della Cassazione (sent. n. 9556/02 e sent. n. 577/08), il rapporto che lega la struttura sanitaria (pubblica o privata) al paziente ha fonte in un contratto obbligatorio atipico (c.d. di “spedalità”) che si perfeziona - anche sulla base di fatti concludenti - con la sola accettazione del malato presso la struttura (Cass. 13/4/2007 n. 8826) e che ha ad oggetto l'obbligo della struttura di adempiere sia prestazioni principali di carattere strettamente sanitario, sia prestazioni secondarie ed accessorie.
Da ciò discende che la responsabilità risarcitoria della struttura sanitaria, per l'inadempimento e/o per l'inesatto adempimento delle prestazioni dovute in base al contratto di spedalità, va inquadrata nella responsabilità da inadempimento ex art. 1218 c.c.
Alla luce di quanto sopra, in tema di riparto dell'onere della prova, la Corte di Cassazione ha precisato che “in tema di responsabilità civile nell'attività medico-chirurgica, ove sia dedotta una responsabilità contrattuale della struttura sanitaria e/o del medico per l'inesatto adempimento della prestazione sanitaria, il danneggiato deve fornire la prova del contratto (o del "contatto") e dell'aggravamento della situazione patologica (o dell'insorgenza di nuove patologie per effetto dell'intervento) e del relativo nesso di causalità con l'azione o l'omissione dei sanitari, secondo il criterio, ispirato alla regola della normalità causale, del “più probabile che non”, restando a carico dell'obbligato - sia esso il sanitario o la struttura - la prova che la prestazione professionale sia stata eseguita in modo diligente e che quegli esiti siano stati determinali da un evento imprevisto e imprevedibile” (v. tra le tante: Cass. 16 gennaio 2009, n. 975; 9 ottobre 2012, n. 17143; 20 ottobre 2015, n. 21177; Cass. 18392/2017).
Le risultanze dell'istruttoria espletata
La causa è stata istruita mediante espletamento di consulenza medico - legale avente il seguente quesito: “accertino i periti, avuto riguardo a quanto allegato dall'attrice, la sussistenza della responsabilità dei sanitari dell'Ospedale di Ozieri che l'avevano avuta in cura, indicando in particolare se l'omessa o ritardata diagnosi della patologia, per cui l'attrice era stata poi sottoposta ad intervento chirurgico, sia causalmente riconducibile ad omissioni o negligenze, o comunque a carenze nell'operato dei sanitari medesimi.
In caso positivo, descrivano le conseguenze, in termini di aggravamento del danno all'integrità psicofisica della paziente o comunque d'inabilità anche temporanea all'esercizio delle proprie attività e di maggiore sofferenza dell'interessata”.
Ebbene, i periti nominati dal Tribunale hanno confermato la tesi della paziente ravvisando la sussistenza di una omissione diagnostica nei termini che seguono: “non fu messo in atto un percorso diagnostico differenziale, poiché è evidente come, a fronte del corteo sintomatologico riportato dai medici che la ebbero in cura, confermato a suo modo dalla perizianda e da una terza persona presente all'esordio dei sintomi, non sia stato definito un opportuno percorso diagnostico al fine di differenziale elementi sintomatologici ad occorrenza accessuale, che invece furono, con la sola valutazione clinica, inquadrati come un ipotetico stato d'ansia”.
Sostanzialmente, la sintomatologia descritta poteva e doveva richiedere già in questa fase iniziale un approfondimento diagnostico, che poteva far propendere o meno per una crisi epilettica isolata.
Alla luce di tale ricostruzione, come affermato dai periti in risposta ai quesiti posti, la condotta (omissiva) del personale medico e sanitario della struttura qui convenuta (che avrebbero dovuto procedere ad effettuare approfondimenti amnestici e accertamenti clinici strumentali diagnostici) costituisce certamente una violazione dei doveri di diligenza e prudenza richiesti nell'ambito di una prestazione sanitaria da considerare non connotata da particolare complessità tecnica.
Parimenti nulla quaestio quanto alla sussistenza del nesso di causalità tra la condotta negligente e imperita tenuta dai medici del Pronto Soccorso dell'Ospedale di Ozieri e l'evento lesivo subito da parte attrice.
Sul punto occorre specificare che, come affermato da consolidato orientamento giurisprudenziale della Suprema Corte, in ambito civilistico si debba utilizzare il criterio definito della “preponderanza dell'evidenza” (c.d. più probabile che non), diverso da “l'oltre ogni ragionevole dubbio” utilizzato nel sistema della responsabilità penale.
Ebbene, la C.T.U. ha espressamente accertato, soddisfacendo il criterio del c.d. più probabile che non, che “il mancato riconoscimento del corretto quadro clinico nella paziente ha comportato quello che a oggi può essere clinicamente diagnosticato come Disturbo dell'Adattamento con umore depresso ed elevazione dell'ansia di grado lieve-medio (non necessitante di trattamento farmacologico se non occasionalmente al bisogno) con conseguente danno biologico permanente valutabile nella misura dell'8% (otto percento).
Inoltre, alla paziente viene riconosciuto un danno biologico temporaneo quantificabile nella maniera seguente: danno biologico temporaneo al 50% per 7 mesi; danno biologico temporaneo al 25% per 5 mesi. Tale valutazione tiene conto dell'evoluzione della menomazione psichica (non inquadrata e non correttamente trattata) sofferta dall'attrice sino ad arrivare alla sua stabilizzazione espressa in termini di danno biologico permanente.
Quantificazione del danno
In merito alla quantificazione dei danni non patrimoniali subiti dalla paziente, alla luce delle risultanze della C.T.U., il Tribunale ritiene opportune alcune precisazioni di ordine generale.
Il danno non patrimoniale deve essere considerato una categoria giuridicamente unitaria per cui qualsiasi pregiudizio non patrimoniale deve essere regolato dai medesimi criteri risarcitori dettati dagli artt. 1223,1226,2056,2059 c.c.
Il Giudice, in sede d'istruttoria, “deve procedere ad un articolato e approfondito accertamento, in concreto e non in astratto, dell'effettiva sussistenza dei pregiudizi affermati (o negati) dalle parti, all'uopo dando ingresso a tutti i necessari mezzi di prova, opportunamente accertando in special modo se, come e quanto sia mutata la condizione della vittima rispetto alla vita condotta prima del fatto illecito; utilizzando anche, ma senza rifugiarvisi aprioristicamente, il fatto notorio, le massime di esperienza e le presunzioni, e senza procedere ad alcun automatismo risarcitorio” (Cass. Civ. 7513/2018).
In relazione, invece, alle componenti del danno non patrimoniale - danno dinamico/relazione e danno da sofferenza interiore - e più specificamente in relazione all'autonomia della liquidazione del danno da sofferenza interiore consolidato orientamento giurisprudenziale della Suprema Corte ha affermato quanto segue: “Va osservato, in premessa, come sia del tutto conforme a diritto, ed integralmente condiviso da questa Corte, il principio affermato in sentenza secondo il quale la voce di danno morale mantiene la sua autonomia e non è conglobabile nel danno biologico, trattandosi di sofferenza di natura del tutto interiore e non relazionale, e perciò meritevole di un compenso aggiuntivo al di là della personalizzazione prevista per gli aspetti dinamici compromessi (in tal senso, Cass. n. 910/2018, Cass. n. 7513/2018, Cass. n. 28989/2019).
Trova definitiva conferma normativa, come già da tempo affermato dalla Corte di Cassazione, il principio della autonomia del danno morale rispetto al danno biologico, atteso che il sintagma "danno morale" non è suscettibile di accertamento medico-legale e si sostanzia nella rappresentazione di uno stato d'animo di sofferenza interiore, che prescinde del tutto (pur potendole influenzare) dalle vicende dinamico-relazionali della vita del danneggiato.
Tanto consegue che, nel procedere alla liquidazione del danno alla salute, il Giudice di merito dovrà:
1) accertare l'esistenza, nel singolo caso di specie, di un eventuale concorso del danno dinamico/relazionale e del danno morale;
2) in caso di positivo accertamento dell'esistenza (anche) di quest'ultimo, determinare il quantum risarcitorio applicando integralmente le tabelle di Milano, che prevedono la liquidazione di entrambe le voci di danno, ma pervengono (non correttamente, per quanto si dirà nel successivo punto
3) all'indicazione di un valore monetario complessivo (costituito dalla somma aritmetica di entrambe le voci di danno);
4) in caso di negativo accertamento, e di conseguente esclusione della componente morale del danno (accertamento da condurre caso per caso, secondo quanto si dirà nel corso dell'esame del quarto motivo di ricorso), considerare la sola voce del danno biologico, depurata dall'aumento tabellarmente previsto per il danno morale secondo le percentuali ivi indicate, liquidando, conseguentemente il solo danno dinamico- relazionale” (Cass. Civ. 25164/2020; Cass. Civ. 901/2018; Cass Civ. 28989/2019).
E ancora, la recente giurisprudenza della Corte di Cassazione ha ribadito il principio di autonomia del danno da sofferenza interiore: “questa Corte (Cass. Sez. 3, n. 7513/2018) ha affermato che non costituisce duplicazione risarcitoria l'attribuzione, oltre al danno biologico, di una "ulteriore somma a titolo di risarcimento dei pregiudizi che non hanno fondamento medicolegale, perché non aventi base organica ed estranei alla determinazione medico-legale del grado percentuale di invalidità permanente, rappresentati dalla sofferenza interiore".
In particolare, e diversamente da quanto argomentato dalla Corte territoriale, le compromissioni di carattere morale devono formare oggetto di separata valutazione e liquidazione, come confermato dal nuovo testo degli artt. 138 e 139 cod. ass., i quali, sotto l'unitaria definizione di "danno non patrimoniale", distinguono il danno dinamico - relazionale causato dalle lesioni alla salute da quello morale. La tesi dell'autonoma risarcibilità del danno morale ha ricevuto un ulteriore avallo da Cass. Sez. 3, n. 23469/2018, secondo cui si deve procedere ad una compiuta istruttoria finalizzata all'accertamento concreto e non astratto del danno, dando ingresso a tutti i necessari mezzi di prova, ivi compresi il fatto notorio, le massime di esperienza e le presunzioni, valutando distintamente, in sede di quantificazione del danno non patrimoniale alla salute, le conseguenze subite dal danneggiato nella sua sfera interiore (c.d. danno morale, "sub specie" di dolore, di vergogna, di disistima di sé, di paura, della disperazione) rispetto agli effetti incidenti sul piano dinamico-relazionale (che si dipanano nell'ambito delle relazioni di vita esterne), autonomamente risarcibili” (Cass. Civ. 3310/2021; Cass. Civ. 15697/2021).
Ricostruiti i principi giurisprudenziali e normativi fondanti il risarcimento del danno non patrimoniale, è possibile procedere con la quantificazione del quantum dovuto alla paziente.
Nel caso di specie la C.T.U., ha individuato un danno biologico permanente quantificabile nella misura dell’8% da calcolare, trattandosi di lesioni di lieve entità, tramite le tabelle nazionali per i danni micropermanenti (€ 12.803,26).
Inoltre, la C.T.U., quanto all'inabilità temporanea, ha determinato un'invalidità temporanea parziale al 50% per sette mesi (€ 5.332,95) e al 25% per cinque mesi (€ 1.904,63).
Al danno dinamico-relazionale così determinato, il Tribunale ritiene di doversi aggiungere la componente di danno da sofferenza interiore alla luce delle specifiche allegazioni effettuate da parte attrice e di quanto emerso dall'istruttoria orale espletata: la paziente ha allegato e provato gli effetti negativi patiti sotto il profilo psicologico che le difficoltà motorie, i dolori e le complicazioni dovute alla patologia le hanno procurato (sia durante il periodo non diagnosticato, sia dopo l'operazione chirurgica) anche alla luce della sua età e del fatto che la stessa avesse partorito pochi giorni prima dell'intervento (danno quantificato secondo equità in € 10.000,00).
Da ultimo il Tribunale ritiene di dover riconoscere ai fini del risarcimento del danno una percentuale di personalizzazione del danno, pari a circa il 30% di quanto riconosciuto al titolo di danno biologico permanente e temporaneo (€ 6.000,00).
Ciò in quanto, come chiarito dalla Suprema Corte, “In presenza di un danno permanente alla salute, la misura standard del risarcimento prevista dalla legge o dal criterio equitativo uniforme adottato dagli organi giudiziari di merito (oggi secondo il sistema c.d. del punto variabile) può essere aumentata solo in presenza di conseguenze dannose del tutto anomale ed affatto peculiari.
Le conseguenze dannose da ritenersi normali e indefettibili secondo l'id quod plerumque accidit (ovvero quelle che qualunque persona con la medesima invalidità non potrebbe non subire) non giustificano alcuna personalizzazione in aumento del risarcimento. Va ribadito che la perduta possibilità di continuare a svolgere una qualsiasi attività, in conseguenza d'una lesione della salute, o costituisce una conseguenza "normale" del danno (cioè indefettibile per tutti i soggetti che abbiano patito una menomazione identica), ed allora sarà compensata con la liquidazione del danno biologico; ovvero è una conseguenza peculiare, ed allora dovrà essere risarcita, adeguatamente aumentando la stima del danno biologico (c.d. "personalizzazione": così già Sez. 3, Sentenza n. 17219 del 29.7.2014). Le conseguenze della menomazione, sul piano della loro incidenza sulla vita quotidiana e sugli aspetti "dinamico-relazionali", che sono generali ed inevitabili per tutti coloro che abbiano patito il medesimo tipo di lesione, non giustificano alcun aumento del risarcimento di base previsto per il danno non patrimoniale.
Al contrario, le conseguenze della menomazione che non sono generali ed inevitabili per tutti coloro che abbiano patito quel tipo di lesione, ma sono state patite solo dal singolo danneggiato nel caso specifico, a causa delle peculiarità del caso concreto, giustificano un aumento del risarcimento di base del danno biologico” (Cass. Civ. 28989/2019).
Nel caso di specie, la donna, soffrendo di “Disturbo dell'Adattamento con umore depresso ed elevazione dell'ansia di grado lieve-medio”, come è emerso nell'espletamento della prova orale, ha avuto concrete difficoltà nella gestione della figlia neonata ed ha dovuto rinunciare all'allattamento: alla luce di ciò, questo Giudice ritiene che l'evento lesivo abbia prodotto in capo all'attrice delle conseguenze peculiari e anomale - non comuni secondo l'id quod plerumque accidit.
In conclusione, viene riconosciuto un totale di danno non patrimoniale risarcibile di € 36.040,84.
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