Il Tribunale di Piacenza, con la sentenza n. 3 del 4 gennaio 2023, ha condannato l’Azienda Sanitaria a risarcire un paziente che, a seguito di interventi ortopedici per frattura della gamba sinistra, contraeva una infezione per cui si rendeva necessario procedere all’amputazione al terzo distale della coscia sinistra.
Questo è uno dei vari casi di malasanità che da diritto al risarcimento di tutti i danni subiti dal paziente.
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Un paziente rimaneva coinvolto in un incidente stradale, a seguito del quale veniva trasportato d'urgenza presso il Pronto Soccorso dell'Ospedale dove gli veniva diagnosticata una frattura scomposta, esposta e policontusioni della gamba sinistra, per cui veniva ricoverato e sottoposto ad intervento chirurgico di riduzione e sintesi con placca esterna LCP.
A causa di persistente stato di iperpiressia, nonostante l'antibioticoterapia, veniva sottoposto a consulenza infettivologica che comportava l'avviamento di terapia medica e i medici del nosocomio riscontravano sofferenza cutanea in prossimità della ferita ed eseguivano un tampone che dava esito negativo.
Veniva quindi dimesso con la seguente diagnosi di dimissione: "policontusioni in trauma della strada: frattura esposta gamba sinistra anemizzazione post traumatica".
Seguivano visite di controllo ed esami specifici: in particolare, gli esami ematici del 23.09.2013 rilevavano un altissimo valore di PCR (sintomo di infezione in corso), dopodichè, a causa del dolore persistente in sede di frattura, si recava presso l'Ospedale ed i medici rilevavano un apparecchio gessato congruo e ben tollerato ed eseguivano prelievo ematico per VES (velocità di eritrosedimentazione) e PCR (proteina C-reattiva).
Veniva quindi rimosso l'apparecchio gessato e gli veniva confezionato un nuovo apparecchio gesso che veniva poi sostituito con altro apparecchio gessato; in tale occasione i sanitari rilevavano la persistenza di un focolaio di frattura mobile con necessario intervento chirurgico di osteosintesi con chiodo.
A causa del protrarsi del dolore alla ferita e ad altri problemi connessi di pseudoartrosi della gamba sinistra, il paziente veniva nuovamente ricoverato presso l'Ospedale dove veniva sottoposto ad intervento chirurgico di rimozione mezzi di sintesi e stabilizzazione della frattura tibiale con chiodo endomidollare T2 della vite libera in corrispondenza del focolaio di frattura alla tibia sinistra fissato, distalmente, con due viti e prossimamente con una vite dinamica; durante l'intervento, i medici eseguivano prelievi del materiale di drenaggio ai fini dell'esame colturale che rilevava presenza di Staphylococus epidermis; alla luce delle risultanze dell'esame e degli alti valori di PCR, il consulente infettivologo prescriveva una terapia antibiotica con Levofloxacina 500 mg; tuttavia, nei giorni seguenti, A.F. risultava sempre piretico; nonostante tale condizione il paziente veniva dimesso con prescrizione di deambulazione con l'ausilio di stampelle e carico parziale a sinistra, kinesi attiva di TT al ginocchio sinistro e terapia medica.
Successivamente veniva rilevato un marcato varismo della tibia con chiodo endomidollare prossimalmente migrato lateralmente e gli veniva confermato il trattamento chirurgico di rimozione del chiodo e correzione progressiva con fissatore esterno con prescrizione di esami del sangue.
Veniva poi rilevato un tramite fistoloso con piccola secrezione densa alla gamba e gli veniva consigliato di astenersi da sovraccarico funzionale, dopodichè veniva eseguito un tampone che dava risultato positivo alla presenza, in tibia sinistra, dello Stafilococco Aureus e dell'Enterococco Faecalis.
Seguiva un lungo iter clinico di ricoveri e visite, finché, a causa del grave peggioramento del quadro clinico, il paziente, previa arteriografia dell'arto inferiore sinistro, veniva sottoposto presso altro Ospedale fuori città ad operazione di amputazione al terzo distale di coscia sinistra.
Il paziente ricorreva al Tribunale con ricorso ex art. 696 bis c. p. c. e il Giudice designato nominava un collegio peritale al fine di accertare la responsabilità medica che secondo il paziente aveva cagionato l’amputazione dell’arto.
I periti incaricati dal Tribunale accertavano chiari elementi di responsabilità nel trattamento chirurgico della frattura biossea esposta di gamba sx in termini di mancato contenimento della complicanza infettiva altamente prevedibile ab initio ed emendabile con un diverso approccio chirurgico.
Sulla base delle considerazioni di cui sopra il Tribunale ritiene di poter affermare la sussistenza di un danno biologico permanente legato come nesso di causa agli elementi di responsabilità professionale quantizzabile nella misura del 20% (venti per cento) considerando che la frattura in oggetto per tipologia e gravità avrebbe, comunque, avuto una guarigione con esiti invalidanti.
Il danno biologico temporaneo totale è stato di circa tre mesi. Il parziale al 75% di altri tre mesi. Il parziale al 50% pari ad altri tre mesi.
Parziale al 25% pari ad altri mesi due. Il danno biologico permanente, per quanto riguarda gli elementi di responsabilità si ritiene abbia agito parzialmente in termini di danno dinamico-relazionale sulle attività riferite di sci, mountain bike e trekking.
Il paziente ha chiesto di accertare la responsabilità dell'Azienda Sanitaria per aver negligentemente posto in essere interventi sanitari, che hanno comportato la lesione della sua integrità psicofisica sino a rendere necessaria un'operazione di amputazione al terzo distale di coscia sinistra.
Il caso di specie viene esaminato alla luce delle risultanze della indagine peritale, svolta in sede di procedimento ex art. 696bis c.p.c. (e formalmente acquisita al fascicolo processuale) e successivamente integrata nel corso del presente giudizio.
La consulenza d'ufficio ha consentito di accertare che:
- per il tipo di frattura riportata, sarebbe stato opportuno optare per un intervento chirurgico con fissazione interna e non con una placca esterna; infatti, a distanza di 6 mesi dalla prima operazione, il paziente doveva essere nuovamente operato, proprio per il fallimento dell'intervento chirurgico e proprio optando per una fissazione interna, con utilizzo di un chiodo endomidollare;
- a questo punto della vicenda clinica, anche la scelta di posizionare il sopracitato chiodo appare errata, in quanto il paziente pativa, nei mesi successivi, un persistente stato di incertezza sulla natura delle sue febbri e sulle alterazioni agli esami ematici (in particolare, con un pressoché rialzo degli indici infiammatori) che potevano essere segno di una sottostante infezione dei tessuti ossei; pertanto, il chirurgo doveva accertarsi che il campo operatorio fosse sterile prima di effettuare il nuovo intervento oppure "correggere" la scelta operatoria nel caso si fosse accorto della presenza di un germe;
- il chirurgo, nonostante il sospetto di una pseudoartrosi settica, poi confermata dal prelievo di due campioni sul campo operatorio (positivi per Staphylococcusepidermidisoxacillino e penicillino resistente), optava per la stabilizzazione con chiodo endomidollare, con il risultato di non riuscire ad eradicare il focolaio infettivo, il che costringeva il paziente a sottoporsi ad un terzo intervento chirurgico;
- tale intervento chirurgico consisteva proprio in "rimozione chiodo endomidollare, osteotomia perone, osteosintesi esterna correzione deformità a cielo chiuso con apparecchio di Ilizarov.
I consulenti hanno, dunque, concluso che:
- l'errata scelta della tecnica chirurgica sia nel primo che nel secondo intervento conducevano alla necessità di un terzo intervento più invasivo ed una evoluzione peggiorativa del quadro clinico, evitabili in caso di corretta condotta chirurgica;
- sussistono chiari elementi di responsabilità nel trattamento chirurgico della frattura biossea esposta di gamba sinistra, in termini di mancato contenimento della complicanza infettiva altamente prevedibile ab initio ed emendabile con un diverso approccio chirurgico;
- sussiste un danno biologico permanente legato come nesso di causa agli elementi di responsabilità professionale quantizzabile nella misura del 20% (venti per cento), considerando che la frattura in oggetto per tipologia e gravità avrebbe, comunque, avuto una guarigione con esiti invalidanti;
- sussiste un danno biologico temporaneo: totale di circa tre mesi, parziale al 75% di altri tre mesi, parziale al 50% di altri tre mesi, parziale al 25% di altri mesi due;
- il danno biologico permanente ha agito parzialmente in termini di danno dinamico-relazionale sulle attività riferite di sci, mountain bike e trekking;
Alla luce dell'elaborato è emersa, dunque, la responsabilità dell’Azienda Sanitaria per aver errato nelle scelte tecniche svolte in relazione ai primi due interventi chirurgici, il che ha comportato il diffondersi dell'infezione, il mancato tempestivo accertamento della stessa e la definitiva compromissione del quadro clinico.
Il Giudice procede alla liquidazione del danno facendo ricorso all'equità; al fine di circoscrivere questa valutazione discrezionale in un ambito di condivisa oggettività e garantire la parità di trattamento, la Suprema Corte ha ormai da tempo suggerito l'adozione, da parte di tutti i giudici di merito, di parametri di valutazione uniformi che, in difetto di visioni normative (come l'art. 139 del codice delle assicurazioni private, per le lesioni di lieve entità conseguenti alla sola circolazione dei veicoli a motore e dei natanti), vanno individuati in quelli tabellari elaborati presso il tribunale di Milano, da modularsi a seconda delle circostanze del caso concreto.
Sul piano strettamente operazionale, dunque, il compito cui è chiamato il giudice ai fini della relativa liquidazione, va distinto concettualmente in due fasi: la prima, volta a individuare le conseguenze ordinarie inerenti al pregiudizio, cioè quelle che qualunque vittima di lesioni analoghe subirebbe; la seconda, volta a individuare le eventuali conseguenze peculiari, cioè quelle che non sono immancabili, ma che si sono verificate nel caso specifico.
Le prime vanno monetizzate con un criterio uniforme; le seconde con criterio ad hoc scevro da automatismi (cfr. Cass. 13/08/2015, n. 16788).
Da tali premesse discende che, ai fini della c.d. personalizzazione del danno, spetta al giudice far emergere e valorizzare, in coerenza alle risultanze argomentative e probatorie obiettivamente emerse ad esito del dibattito processuale, le specifiche circostanze di fatto, che valgano a superare le consegue ordinarie già previste e compensate dalla liquidazione forfettizzata del danno non patrimoniale assicurata dalle previsioni tabellari; da esse distinguendosi siccome legate all'irripetibile singolarità dell'esperienza di vita individuale nella specie considerata, caratterizzata da aspetti legati alle dinamiche emotive della vita interiore, o all'uso del corpo e alla valorizzazione dei relativi aspetti funzionali, di per sé tali da presentare obiettive e riconoscibili ragioni di apprezzamento (in un'ottica che, ovviamente, superi la dimensione economicistica dello scambio di prestazioni), meritevoli di tradursi in una differente (più ricca e, dunque, individualizzata) considerazione in termini monetari, rispetto a quanto suole compiersi in assenza di dette peculiarità.
Tale personalizzazione del danno legato agli aspetti immediatamente riferiti al pregiudizio della salute della vittima è, quindi, caratterizzata da un'opportuna rivisitazione, e da un aggiuntivo adeguamento monetario, alla luce delle ulteriori circostanze di fatto al cui rilievo e alla cui valorizzazione il giudice è tenuto a provvedere (come già avvertito, sulla base delle risultanze argomentative e probatorie obiettivamente emerse ad esito del dibattito processuale) là dove si profilino aspetti che attengano a una specifica e particolare sofferenza interiore patita dalla vittima dell'illecito (che, in ossequio al linguaggio tradizionale, si traduce con l'espressione che allude al c.d. danno morale soggettivo), e/o alla sofferenza derivante dallo sconvolgimento delle abitudini di vita del soggetto danneggiato che siano ricollegabili (non già al rilievo di aspetti idiosincratici, di comune riferibilità, o di non apprezzabile considerazione, in una prospettiva di solidarietà relazionale, bensì) alla lesione di interessi che assumano consistenza sul piano del disegno costituzionale della vita della persona.
La personalizzazione presuppone che il danneggiato alleghi e provi la sussistenza di una lesione "non comune e non ordinaria", nel senso che le circostanze concrete hanno inciso su aspetti dinamico-relazionali "personali" e hanno provocato al soggetto conseguenze "peculiari" (il classico esempio della lesione al dito del pianista dilettante, che prima del sinistro teneva concerti settimanali).
Al riguardo, giova richiamare quanto recentemente statuito dalla Cassazione: "le conseguenze della menomazione, sul piano della loro incidenza sulla vita quotidiana e sugli aspetti "dinamico-relazionali", che sono generali ed inevitabili per tutti coloro che abbiano patito il medesimo tipo di lesione, non giustificano alcun aumento del risarcimento di base previsto per il danno non patrimoniale.
Al contrario, le conseguenze della menomazione che non sono generali ed inevitabili per tutti coloro che abbiano patito quel tipo di lesione, ma sono state patite solo dal singolo danneggiato nel caso specifico, a causa delle peculiarità del caso concreto, giustificano un aumento del risarcimento di base del danno biologico. Ma lo giustificano, si badi, non perché abbiano inciso, sic et simpliciter, su "aspetti dinamico-relazionali": non rileva infatti quale aspetto della vita della vittima sia stato compromesso, ai fini della personalizzazione del risarcimento; rileva, invece, che quella/quelle conseguenza/e sia straordinaria e non ordinaria, perché solo in tal caso essa non sarà ricompresa nel pregiudizio espresso dal grado percentuale di invalidità permanente, consentendo al giudice di procedere alla relativa personalizzazione in sede di liquidazione (così già, ex multis, Sez. 3, Sentenza n. 21939 del 21/09/2017; Sez. 3, Sentenza n. 23778 del 07/11/2014)" (Cass. civ., ord. "decalogo" n. 7513/2018)3.
Autonomo e ontologicamente diverso dal danno biologico è poi il danno morale, che è - in estrema sintesi - il danno da sofferenza interiore; il danno morale, infatti, si distingue sia dal danno biologico stricto sensu (in quanto non suscettibile di accertamento medico-legale, sostanziandosi, invece, in uno stato d'animo di sofferenza interiore), sia dalla personalizzazione per incidenza su specifici aspetti dinamico-relazionali.
Sul piano probatorio, il danno morale deve, anzitutto, essere specificatamente allegato dalla vittima mediante la "compiuta descrizione di tutte le sofferenze di cui si pretende la riparazione" (Cass. civ., sez. III, sent. n. 25164/2020)4; la prova dello stesso, invece, avviene principalmente con il ragionamento presuntivo fondato in larga misura sulle massime di esperienza.
Le più recenti pronunce della Suprema Corte hanno stabilito che il danno biologico/dinamico-relazionale e quello da sofferenza interiore, essendo ontologicamente diversi, devono essere liquidati separatamente (Cass. civ., sent. n. 25164/2020, n. 2788/2019, n. 29373/2018, n. 901/2018, n. 25817/2017, ord. n. 7513/2018)6; di talché, il danno morale è meritevole di un compenso aggiuntivo al di là della personalizzazione prevista per gli aspetti dinamici compromessi.
Occorre, dunque, valutare separatamente il danno morale rispetto alla personalizzazione del danno biologico, atteso che il danno morale non è suscettibile di accertamento medico-legale e si sostanzia nella rappresentazione di uno stato d'animo di sofferenza interiore, che prescinde del tutto (pur potendole influenzare) dalle vicende dinamico-relazionali della vita del danneggiato.
Accogliendo tale orientamento, l'Osservatorio sulla Giustizia Civile di Milano ha introdotto una nuova "veste grafica" della nota Tabelle milanese di liquidazione del danno (versione marzo 2021), indicando, separatamente, i valori monetari relativi del danno biologico dinamico-relazionale e quelli del danno da sofferenza soggettiva media presunta.
Per la liquidazione del danno, dunque, si ritiene di applicare tale Tabella, che costituisce valida regola integratrice del concetto di equità, volta a circoscrivere la valutazione discrezionale del giudice in un ambito di condivisa oggettività così evitando di incorrere nella equità pura (da ultimo, Cass. civ, sez. III, 05/05/2021, n. 11719; ibidem, 10/11/2020, n. 25164)8.
In punto di danno biologico subito dal paziente nel caso che stiamo trattando, secondo il Tribunale va richiamato quanto accertato dai c.t.u., ossia:
- invalidità permanente: 20%
- invalidità temporanea totale: 90 giorni
- invalidità temporanea parziale al 75%: 90 giorni
- invalidità temporanea parziale al 50%: 90 giorni
- invalidità temporanea parziale al 25%: 60 giorni
Dunque, applicando le Tabelle Milanesi (veste grafica del 2021), il danno biologico permanente va liquidato in € 42.284, in quanto al momento della stabilizzazione dei postumi (intervento di amputazione) l'uomo aveva 72 anni 2 mesi e 11 giorni; a ciò, va aggiunto l'importo di € 15.223, quale incremento per danno da sofferenza media presumibile in casi analoghi ed in assenza di elementi di prova (anche presuntivi) dall'assenza di tale sofferenza.
Ne consegue che il danno biologico permanente è complessivamente pari a € 57.507, tenendo conto sia della componente biologica/dinamico-relazione, sia della sofferenza soggettiva interiore.
Quanto poi al danno biologico temporaneo, si rileva che il suo valore standard è pari ad € 99 giornalieri (di cui € 72 per danno biologico/dinamico e € 27 per danno da sofferenza soggettiva interiore media presumibile); di talché, si liquida l'importo complessivo di € 21.532,50 così determinato:
- per invalidità temporanea totale (€ 99,00 x 90 gg.) € 8.910,00
- per invalidità temporanea parziale al 75% (€ 99,00 x 90 gg.) € 6.682,50
- per invalidità temporanea parziale al 50% (€ 99,00 x 90 gg.) € 4.455,00
- per invalidità temporanea parziale al 25% (€ 99,00 x 60 gg.) € 1.485,00.
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