Il caso di malasanità che trattiamo con questo articolo è uno dei tanti che possono succedere, e che danno diritto ai familiari di un paziente morto per colpa medica di ottenere il risarcimento di tutti i danni subiti, sia in qualità di eredi che in proprio.
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A fine 2010 un paziente, da anni afflitto da un'insufficienza valvolare aortica decideva di sottoporsi a intervento cardio-chirurgico – finalizzato alla ‘riparazione' o alla ‘sostituzione' della valvola aortica e del bulbo aortico - presso una Clinica.
Il 27.12.1010 veniva pertanto ricoverato presso detta struttura.
L'operazione inizialmente programmata per il 28 dicembre 2010, veniva svolta il giorno successivo (29.12.2010), essendo stata l'equipe nel frattempo impegnata in un'operazione d'urgenza.
All'esito dell'intervento – protrattosi per circa 9 ore, invece delle 4 inizialmente stimate – il medico riferiva ai familiari che l'operazione era perfettamente riuscita, essendo state effettuate la riparazione della valvola aortica, la sostituzione del bulbo aortico e dell'aorta ascendente, ma che erano sorte alcune complicazioni.
Più in particolare: l'intervento era stato condotto in CEC; dopo la riparazione della valvola, i sanitari avevano ripristinato la circolazione naturale, ma, dopo circa 20/30 minuti, si erano accorti, in forza dell'emogasanalisi, che il cuore non funzionava, essendo il livello di pO2 a 19 (valore incompatibile con la vita); dopo tale lasso di tempo era stata ripristinata la CEC; veniva quindi riscontrato un microscopico difetto interatriale, che avrebbe causato la comunicazione tra i due atri e, conseguentemente, la mancata ossigenazione del sangue.
Nei giorni successivi ai famigliari venivano fornite solo notizie frammentarie sulle condizioni del paziente.
Nella serata del 30 dicembre 2010 veniva comunicato ai famigliari che era stata riscontrata una contrattilità, seppur debole, del ventricolo destro.
Il giorno successivo la pressione arteriosa calava vertiginosamente a zero, per cui si rendeva necessario effettuare un massaggio cardiaco a cuore aperto, con iniezione di adrenalina e successivo collegamento del paziente ai macchinari per l'indispensabile assistenza cuore/polmoni.
La notte tra il 31 dicembre 2010 ed il 1° gennaio 2011, i dati clinici del paziente peggioravano sensibilmente.
Nel primo pomeriggio del 2 gennaio veniva comunicato ai famigliari il suo decesso.
A seguito di denuncia querela presentata dalla moglie, erano avviate le indagini preliminari
Sulla base delle consulenze tecniche espletate, il Pubblico Ministero richiedeva in due successive occasioni l'archiviazione del procedimento, richiesta respinta per altrettante volte dal Giudice per le Indagini Preliminari, che ordinava un supplemento di indagini.
In seguito il P.M. richiedeva effettuarsi perizia nelle forme dell'incidente probatorio, che il G.i.p. disponeva.
La perizia rilevava profili di imperizia nella condotta del chirurgo che aveva operato il paziente, ritenendo tale condotta in rapporto causale con il decesso del paziente.
Con sentenza emessa il 21.7.2016 il G.u.p. assolveva il medico dal reato di omicidio colposo ascrittogli.
Dalla motivazione della pronuncia si ricava che il giudicante aveva ritenuto non essere stata raggiunta, al di là di ogni ragionevole dubbio, la prova in ordine alla condotta colposa dell'imputato.
All’esito del giudizio penale i familiari del paziente non demordono e introducono una causa civile davanti al Tribunale di Ravenna, ribadendo la ricorrenza di una condotta colposa del chirurgo che aveva effettuato l'intervento e l'efficacia causale di tale condotta sul decesso del paziente.
In particolare, venivano evidenziati:
- l'erroneità della somministrazione della cardioplegia che, in presenza di una insufficienza valvolare di grado moderato-severa, avrebbe dovuto indurre i sanitari ad operare la perfusione selettiva direttamente negli osti coronari e non (come avvenuto) in bulbo aortico, al fine di evitare la copiosa perdita del liquido somministrato e in modo continuo, anziché (come avvenuto) intermittente;
- la mancata adozione di una condizione di ipotermia sistemica (essendo stato effettuato l'intervento in normotermia);
- l'erroneo quantitativo di liquido somministrato (di 2000 ml anziché un dosaggio compreso tra 2970 e 3960 ml);
- l'assenza di alcun riferimento in cartella, sulla pressione di perfusione;
- la mancata indicazione, in cartella dei dati pressori dell'infusione, del bulbo, l'assenza dell'eco trans-esofagea in corso di perfusione e di operazione.
Si stigmatizzava inoltre la gestione post-operatoria del paziente: anzitutto il ritardo nella diagnosi della complicanza e, secondariamente, la mancata adozione dell'adeguato supporto cardiocircolatorio meccanico (quale il contropulsatore aortico e l'assistenza circolatoria), che avrebbe potuto consentire un eventuale trapianto cardiaco in urgenza.
Infine, veniva criticata anche la diagnosi posta dai sanitari di infarto acuto intra-operatorio, a fronte di un infarto miocardico massivo e pertanto non ascrivibile ad un possibile shunt atriale.
Il Tribunale incaricava un collegio peritale affinchè venisse accertato se il caso di cui trattasi era o meno caratterizzato da colpa medica.
I consulenti chiariscono anzitutto che la valvulopatia di cui il paziente soffriva era di grado quanto meno moderato, se non addirittura severo: “nel caso in oggetto, seppur mancando alcuni dati ecocardiografici importanti, come il PHT e la vena contracta, esistono alcuni dati strumentali che ci fanno capire come il grado di insufficienza fosse con molta probabilità almeno di grado moderato. Infatti il cuore del paziente, all'eco del 27.12.2010, possedeva già una iniziale dilatazione ventricolare e un'ipertrofia ventricolare eccentrica tipici dell'insufficienza aortica più che moderata. Inoltre nella cartella clinica del medesimo ricovero viene segnalato “toni cardiaci validi soffio diastolico”; sebbene non sia specificata la gradazione del soffio udito, la segnalazione di un soffio diastolico significa che quest'ultimo è facilmente udibile con l'uso del fonendoscopio, il che dimostrerebbe la presenza di una valvulopatia di grado almeno moderato […] Per di più è possibile sostenere che l'insufficienza aortica era di grado fra il moderato ed il severo; ciò si evince dagli innumerevoli ecocardiogrammi eseguiti, tutti concordi nel ritenere l'insufficienza aortica di grado almeno moderato”.
Da ciò consegue che l'indicazione all'intervento cardiochirurgico svolto nel dicembre 2010 era corretta.
Chiarita poi la funzione essenziale, per tale tipo di interventi, eseguiti in circolazione extracorporea, di assicurare una protezione al tessuto miocardico (cardioplegia) (“La cardioplegia permette di ridurre al minimo il metabolismo del miocardio, attraverso l'infusione di soluzione fredde o moderatamente ipotermiche nel letto vascolare coronarico”), al fine di evitare gli effetti indotti dall'ischemia a livello miocardico,: alterazioni di tipo metabolico, elettrico o meccanico, i C.T.U. hanno sottolineato le caratteristiche che tale protezione deve presentare (“Tre sono le componenti fondamentali della protezione miocardica: la scelta di una soluzione cardioplegica efficace, il mantenimento di una inattività elettromeccanica cardiaca e l'utilizzo dell'ipotermia locale”).
Quanto in particolare alla cardioplegia, ve ne sono di vari tipi: “In rapporto alla composizione si possono distinguere in cardioplegia ematica o cristalloide: la prima costituita o da sangue in toto, o da sangue con agenti farmacologici, la seconda da una soluzione farmacologica cristalloide. Le cardioplegie si possono anche distinguere in base alla via di somministrazione: anterograda (iniettata o nel bulbo aortico o direttamente negli osti coronarici); retrograda (iniettata nel seno coronarico). Nel primo caso la soluzione è somministrata attraverso una cannula situata in radice aortica ed è infusa negli osti coronarici mediante l'utilizzo di una pompa a rulli o di una sacca a pressione. La cardioplegia anterograda non è utilizzabile in presenza di un'insufficienza aortica significativa della valvola per il rischio di malperfusione coronarica e contestuale dilatazione ventricolare […]”). Le cardioplegie vengono inoltre distinte in base alla temperatura della soluzione somministrata: soluzione ipotermica (a 4 C°) e soluzione normotermica (37 C°).
Quanto alla cardioplegia verosimilmente utilizzata nel caso di specie (Custodiol, una soluzione cardioplegica cristalloide fredda), questa è indicata per interventi di lunga durata garantendo un tempo di ischemia di circa 180 minuti.
Il protocollo Custodiol prevede il monitoraggio di diversi valori indicativi. L'infusione avviene per via anterograda ad una temperatura di 4C°.
La casa produttrice raccomanda un dosaggio di 1mL/min/g del peso stimato del cuore con un tempo di perfusione che va dai 6 agli 8 minuti; pertanto, per un adulto di 80 Kg, la dose raccomandata è di circa 2400 mL; tuttavia in letteratura, così come in molti centri cardiochirurgici italiani, la dose consigliata è di circa 20-30 mL/Kg per un massimo di 2 Litri con la possibilità di somministrare un altro litro di Custodiol dopo che è sono stati superati i 120 minuti di clampaggio aortico.
Altro fattore da considerare per la somministrazione di una cardioplegia tipo Custodiol è la temperatura corporea cui si mantiene il paziente, essendo acclarato che l'ipotermia ha un ruolo fondamentale nella riduzione dell'insulto ischemico e nella riduzione del consumo di ossigeno. Per questo e anche per aumentare l'effetto protettivo della cardioplegia, attualmente la maggior parte delle procedure cardiochirurgiche viene effettuata in ipotermia lieve (tra 32-35° C) o moderata (24-32° C) a seconda del tipo di procedura eseguita.
Nel caso in esame, sebbene, come detto, il referto operatorio e una scheda CEC non risultino compilati in modo del tutto adeguato, dalla cartella clinica emerge che la cardioplegia utilizzata sia stata di tipo Custodiol nel primo intervento, somministrata per via anterograda in bulbo aortico, condotta in normotermia.
Ciò posto, i consulenti hanno rilevato un duplice errore nell'esecuzione dell'intervento:
1) la cardioplegia Custodiol avrebbe dovuto essere somministrata direttamente negli osti coronarici a causa dell'insufficienza aortica contestuale, infatti: a) la concomitanza di un'insufficienza aortica almeno moderata necessita di un'infusione direttamente negli osti coronarici per avere la certezza di una corretta protezione miocardica; b) a maggior ragione negli interventi in ministernotomia, come nel caso in questione, non è possibile osservare la sovradistensione del cuore in caso di incontinenza della valvola aortica, dato che con questo approccio il ventricolo sinistro rimane nascosto alla visione dei chirurghi operatori; c) inoltre, l'utilizzo dell'ecocardiotransesofageo non può essere utilizzato come strumento diagnostico per visualizzare la continenza della valvola aortica durante il clampaggio aortico e l'infusione della cardioplegia cristalloide (dato che la cardioplegia Custodiol non contiene globuli rossi, non può essere visualizzato il flusso cardioplegico attraverso metodica eco-color Doppler);
2) la conduzione della circolazione extracorporea in normotermia (36-37°), che ha anch'essa contribuito al peggioramento dell'insulto ischemico.
Il successivo peggioramento delle condizioni del paziente è stata diretta conseguenza di tale duplice errore: “Infatti la presenza di un difetto interatriale con shunt sx-dx, non presente nel primo intervento, non è altro che una manifestazione di una severa insufficienza ventricolare destra causata da una mancata protezione miocardica. Infatti in queste circostanze, le pressioni in ventricolo e atrio destro aumentano in maniera considerevole tali da creare uno shunt atriale precedentemente non visibile. In condizioni di normalità le pressioni nelle sezioni di sinistra sono maggiori di quelle destre e non permettono di visualizzare tali shunt, salvo la presenza di difetti interatriali congeniti di ben altre dimensioni”).
Quanto alla condotta post operatoria dei sanitari, essa, ad avviso dei C.T.U. deve ritenersi corretta (“essi si sono prodigati nel trattare l'insufficienza cardiaca sopraggiunta prima con l'infusione di farmaci vasoattivi e successivamente con l'utilizzo di sistema di assistenza al circolo come contropulsatore aortico ed ECMO. Alla luce di quanto emerge dalla cartella clinica riteniamo che, anche se questi sistemi di assistenza al circolo fossero stati istituiti più precocemente, non avrebbero modificato in maniera sostanziale l'esito infausto; si ricorda difatti che con gli ECMO post-cardiotomy si ha una mortalità molto elevata che in letteratura arriva fino al 52%”).
I C.T.U. espongono pertanto nei seguenti termini le loro conclusioni: “alla luce delle risultanze documentali e delle considerazioni tecniche fin qui formulate, è possibile affermare che l'intervento cardiochirurgico espletato in data 29.12.2010 presso la Casa di Cura ‘Villa Maria Cecilia' di Cotignola era indicato, non presentava la risoluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà in considerazione del complessivo stato di salute del periziando e non fu correttamente eseguito. Un adeguato management sanitario non avrebbe comportato il massivo infarto miocardico e, di conseguenza, l'insufficienza multiorgano e l'exitus del paziente nelle modalità e tempistiche registratesi poiché, alla luce di quanto si rileva dalla letteratura di settore, a fronte di simili trattamenti chirurgici vi è un'elevata probabilità (sicuramente superiore al parametro richiesto per il criterio del “più probabile che non”) di sopravvivenza”.
Ad avviso del Tribunale, le valutazioni espresse nella richiamata C.T.U. appaiono pienamente condivisibili, avendo i consulenti attentamente esaminato la storia clinica del paziente, dalla diagnosi della patologia, delle relative scelte terapeutiche e modalità della loro attuazione, operando una consapevole e ponderata valutazione dei referti in atti, replicando con puntualità e ragionevolezza ai rilievi critici mossi dai consulenti di parte e pervenendo infine a conclusioni logicamente argomentate.
Da tali valutazione emergono chiaramente profili di imperizia nell'intervento chirurgico cui il paziente è stato sottoposto il 29.12.2010, sostanziatisi, come detto, nella scelta errata di somministrare la cardioplegia Custodiol in bulbo aortico, anziché direttamente negli osti coronarici, a causa dell'insufficienza aortica da cui era affetto il paziente e in quella di praticare la conduzione della circolazione extracorporea in normotermia, anziché in ipotermia; emerge altresì che tali condotte non conformi a perizia hanno svolto una efficacia causale nella produzione della catena dei successivi eventi - massivo infarto miocardico e insufficienza multiorgano – che hanno condotto a morte il paziente.
La vedova ed i quattro figli del defunto, ancora non economicamente autosufficienti, chiedono il risarcimento del danno patrimoniale subito a causa del decesso del congiunto per colpa medica.
Al riguardo, il Tribunale ritiene condivisibile l'orientamento giurisprudenziale per cui il fatto che i figli di persona deceduta in seguito ad un fatto illecito siano maggiorenni ed economicamente indipendenti non esclude la configurabilità, e la conseguente risarcibilità, del danno patrimoniale da essi subito per effetto del venir meno delle provvidenze aggiuntive che il genitore destinava loro, posto che la sufficienza dei redditi del figlio esclude l'obbligo giuridico del genitore di incrementarli, ma non il beneficio di un sostegno durevole, prolungato e spontaneo, sicché la perdita conseguente si risolve in un danno patrimoniale, corrispondente al minor reddito per chi ne sia stato beneficato.
Il medesimo ragionamento appare estensibile al coniuge, pur in ipotesi economicamente indipendente, atteso che, al netto della quota di reddito che la vittima, qualora rimasta in vita, avrebbe verosimilmente destinato esclusivamente a sé, la parte restante sarebbe stata destinata alla famiglia.
Deve inoltre rilevarsi che, la perdita patrimoniale subita dai ricorrenti sotto il profilo del venir meno della quota parte del reddito della vittima, per il periodo dall'evento di danno fino al momento della liquidazione giudiziale si configura come un danno emergente e non come un danno futuro, perché "la perdita del beneficio della quota degli emolumenti si correlava ad un periodo temporale ormai decorso e, dunque, ad un danno già verificatosi ed apprezzabile nella sua consistenza senza alcuna valutazione prognostica, qual è quella della liquidazione del danno futuro".
Orbene, nel caso in esame, al momento della liquidazione (come anche a quello della precisazione delle conclusioni nel presente giudizio: 14.12.2022), il reddito da lavoro del paziente morto sarebbe comunque cessato, perché egli avrebbe raggiunto l'età pensionabile nel 2021.
Nel caso di specie, il reddito riferibile alla vittima è quello ottenibile dalla media delle ultime due contribuzioni, pari a euro 53.776,00.
La c.d. quota sibi appare equitativamente determinabile in un quarto di detto valore, ossia €. 13.444,00.
La parte restante (€. 43.332,00), va suddivisa per il numero dei richiedenti (5), pervenendosi così all'importo di €. 8.066,40.
Quale periodo di riferimento per calcolare il danno da lucro cessante in esame, lo stesso richiedente ha indicato quello intercorrente tra l'anno del decesso e quello in cui il de cuius, ottendendosi così un periodi di 11 anni.
Ne consegue che per ciascuno dei richiedenti il danno emergente risulta pari a un quinto del predetto importo €. 8.066,40, moltiplicato per gli anni (11) in cui il de cuius avrebbe continuato a percepire il reddito da lavoro ed è pari pertanto per ciascuno a €. 88.730,40.
Oltre a tale voce di danno, a tutti i familiari del paziente morto viene riconosciuto il risarcimento per perdita del rapporto parentale, che va da € 323.000 per i figli minori ad € 80.000 per il fratello del defunto.
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