Con sentenza n. 19599 del 19 aprile 2023, la Corte di Cassazione III Penale ha affrontato un caso di violenza sessuale affermando il principio secondo cui il dissenso della vittima ad intrattenere il rapporto sessuale con l’aggressore deve ritenersi presunto, salvo prova contraria.
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Prima di analizzare il principio espresso dalla Corte di Cassazione, riportiamo la definizione di reato di “violenza sessuale” come riportata dall’articolo 609 bis del codice penale.
Chiunque, con violenza o minaccia o mediante abuso di autorità costringe taluno a compiere o subire atti sessuali è punito con la reclusione da sei a dodici anni.
Alla stessa pena soggiace chi induce taluno a compiere o subire atti sessuali: 1) abusando delle condizioni di inferiorità fisica o psichica della persona offesa al momento del fatto; 2) traendo in inganno la persona offesa per essersi il colpevole sostituito ad altra persona.
Nei casi di minore gravità la pena è diminuita in misura non eccedente i due terzi.
Vediamo invece come viene aggravata la pena nel caso di sussistenza di circostanze aggravanti.
La pena stabilita dall'articolo 609 bis è aumentata di un terzo se i fatti ivi previsti sono commessi: 1) nei confronti di persona della quale il colpevole sia l'ascendente, il genitore, anche adottivo, o il tutore; 2) con l'uso di armi o di sostanze alcoliche, narcotiche o stupefacenti o di altri strumenti o sostanze gravemente lesivi della salute della persona offesa; 3) da persona travisata o che simuli la qualità di pubblico ufficiale o di incaricato di pubblico servizio; 4) su persona comunque sottoposta a limitazioni della libertà personale; 5) nei confronti di persona che non ha compiuto gli anni diciotto; 5-bis) all’interno o nelle immediate vicinanze di istituto d’istruzione o di formazione frequentato dalla persona offesa; 5-ter) nei confronti di donna in stato di gravidanza; 5-quater) nei confronti di persona della quale il colpevole sia il coniuge, anche separato o divorziato, ovvero colui che alla stessa persona è o è stato legato da relazione affettiva, anche senza convivenza; 5-quinquies) se il reato è commesso da persona che fa parte di un'associazione per delinquere e al fine di agevolarne l'attività; 5-sexies) se il reato è commesso con violenze gravi o se dal fatto deriva al minore, a causa della reiterazione delle condotte, un pregiudizio grave; 5-septies) se dal fatto deriva pericolo di vita per il minore.
La pena stabilita dall'articolo 609 bis è aumentata della metà se i fatti ivi previsti sono commessi nei confronti di persona che non ha compiuto gli anni quattordici.
La pena è raddoppiata se i fatti di cui all'articolo 609 bis sono commessi nei confronti di persona che non ha compiuto gli anni dieci.
Secondo costante giurisprudenza della Corte di Cassazione, integra l'elemento oggettivo del reato di violenza sessuale non soltanto la condotta invasiva della sfera della libertà ed integrità sessuale altrui realizzata in presenza di una manifestazione di dissenso della vittima, ma anche quella posta in essere in assenza del consenso, non espresso neppure in forma tacita, della persona offesa, come nel caso in cui la stessa non abbia consapevolezza della materialità degli atti compiuti sulla sua persona.
La Corte ha altresì affermato (Sez. 3, n. 7873 del 19/01/2022, De Souza, Rv. 282834 02) che l'esimente putativa del consenso dell'avente diritto non è configurabile nel delitto di violenza sessuale, in quanto la mancanza del consenso costituisce requisito esplicito della fattispecie e l'errore sul dissenso si sostanzia, pertanto, in un errore inescusabile sulla legge penale (Sez. 3, n. 2400 dei 05/10/2017, Rv. 272074 - 01; Sez. 3, n. 17210 del 10/03/2011, Rv. 250141 - 01).
Ai fini della consumazione del reato di violenza sessuale, è richiesta la mera mancanza del consenso, non la manifestazione del dissenso, ben potendo il reato essere consumato ai danni di persona dormiente (Sez. 3, n. 22127 del 23/06/2016, Rv. 270500 - 01).
Ne' è sufficiente il mero consenso all'atto sessuale, è altresi necessario che il consenso riguardi la specifica persona che quell'atto compie (arg. ex art. 609-bis, comma 2, n. 2, c.p.)".
Ancora, si è affermato (Sez. 3, n. 12628 del 17/12/2019, dep. 2020, n. m.) che non è ravvisabile in alcuna fra le disposizioni legislative introdotte a seguito dell'entrata in vigore della L. n. 66 del 1996, un qualche indice normativo che possa imporre, a carico del soggetto passivo del reato un onere, neppure implicito, di espressione del dissenso alla intromissione di soggetti terzi nella sua sfera di intimità sessuale, dovendosi al contrario ritenere (...) che tale dissenso sia da presumersi e che pertanto sia necessaria, ai fini dell'esclusione dell'offensività della condotta, una manifestazione di consenso dell soggetto passivo che quand'anche non espresso, presenti segni chiari ed univoci che consentano di ritenerlo esplicitato in forma tacita (Sez. 3, n. 49597 del 09/03/2016, Rv. 268186 - 01).
In sostanza, nei reati contro la libertà sessuale, il dissenso è sempre presunto, salva prova contraria.
Tale interpretazione appare anche conforme alla Convenzione di Istanbul, il cui art. 36 impegna gli Stati a punire qualsiasi "atto sessuale non consensuale con penetrazione vaginale, anale o orale" nonché "altri atti sessuali compiuti su una persona senza il suo consenso".
L’Italia ha ratificato con la legge n. 77/2013 la Convenzione del Consiglio d'Europa “sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica”, ovvero la cosiddetta Convenzione di Istanbul,aperta alla firma l'11 maggio del 2011.
Il Senato della Repubblica Italiana, con dossier n. 29 della diciassettesima legislatura, ha letteralmente descritto come segue i contenuti della Convenzione.
La Convenzione si compone di un Preambolo, di 81 articoli raggruppati in dodici Capitoli, e di un Allegato.
Il Preambolo ricorda innanzitutto i principali strumenti che, nell'ambito del Consiglio d'Europa e delle Nazioni Unite, sono collegati al tema oggetto della Convenzione e sui quali quest'ultima si basa. Tra di essi riveste particolare importanza la CEDAW (Convenzione Onu del 1979 sull'eliminazione di ogni forma di discriminazione contro le donne) e il suo Protocollo opzionale del 1999 che riconosce la competenza della Commissione sull'eliminazione delle discriminazioni contro le donne a ricevere e prendere in esame le denunce provenienti da individui o gruppi nell'ambito della propria giurisdizione.
Si ricorda che la CEDAW - universalmente riconosciuta come una sorta di Carta dei diritti delle donne - definisce "discriminazione contro le donne" "ogni distinzione, esclusione o limitazione basata sul sesso, che abbia l'effetto o lo scopo di compromettere o annullare il riconoscimento, il godimento o l'esercizio da parte delle donne, indipendentemente dal loro stato matrimoniale e in condizioni di uguaglianza fra uomini e donne, dei diritti umani e delle libertà fondamentali in campo politico, economico, sociale, culturale, civile, o in qualsiasi altro campo".
Si segnala che, sempre nell'ambito delle Nazioni Unite, nel 2009 è stato lanciato il database sulla violenza contro le donne, allo scopo di fornire il quadro delle misure adottate dagli Stati membri dell'Onu per contrastare la violenza contro le donne sul piano normativo e politico, nonché informazioni sui servizi a disposizione delle vittime.
Il Preambolo della Convenzione riconosce inoltre che la violenza contro le donne è una manifestazione dei rapporti di forza storicamente diseguali tra i sessi ed aspira a creare un'Europa libera da questa violenza.
Gli Obiettivi della Convenzione sono elencati nel dettaglio dall'articolo 1. Oltre a quanto già esplicitato nel titolo della Convenzione stessa, appare importante evidenziare l'obiettivo di creare un quadro globale e integrato che consenta la protezione delle donne, nonchè la cooperazione internazionale e il sostegno alle autorità e alle organizzazioni a questo scopo deputate.
Di rilievo inoltre la previsione che stabilisce l'applicabilità della Convenzione sia in tempo di pace sia nelle situazioni di conflitto armato, circostanza, quest'ultima, che da sempre costituisce momento nel quale le violenze sulle donne conoscono particolare esacerbazione e ferocia.
Contestualmente alla firma, l'Italia ha depositato presso il Consiglio d'Europa una nota verbale con la quale ha dichiarato che "applicherà la Convenzione nel rispetto dei principi e delle previsioni costituzionali". Tale dichiarazione interpretativa - apposta anche a seguito di quanto chiesto al Governo con le mozioni approvate al Senato il 20 settembre 2012 - è motivata dal fatto che la definizione di "genere" contenuta nella Convenzione - l'art. 3, lettera c) recita: "con il termine genere ci si riferisce a ruoli, comportamenti, attività e attributi socialmente costruiti che una determinata società considera appropriati per donne e uomini" - è ritenuta troppo ampia e incerta e presenta profili di criticità con l'impianto costituzionale italiano (si veda, al proposito, la relazione illustrativa al ddl di autorizzazione alla ratifica - A.S. 3654 - presentato dal Governo Monti l'8 gennaio 2013).
L'articolo 4 della Convenzione sancisce il principio secondo il quale ogni individuo ha il diritto di vivere libero dalla violenza nella sfera pubblica e in quella privata. A tal fine le Parti si obbligano a tutelare questo diritto in particolare per quanto riguarda le donne, le principali vittime della violenza basata sul genere (ossia di quella violenza che colpisce le donne in quanto tali, o che le colpisce in modo sproporzionato).
Poiché la discriminazione di genere costituisce terreno fertile per la tolleranza della violenza contro le donne, la Convenzione si preoccupa di chiedere alle Parti l'adozione di tutte le norme atte a garantire la concreta applicazione del principio di parità tra i sessi corredate, se del caso, dall'applicazione di sanzioni.
I primi a dover rispettare gli obblighi imposti dalla Convenzione sono proprio gli Stati i cui rappresentanti, intesi in senso ampio, dovranno garantire comportamenti privi di ogni violenza nei confronti delle donne (art. 5).
L'articolo 5 prevede anche un risarcimento delle vittime di atti di violenza commessi da soggetti non statali, che può assumere forme diverse (riparazione del danno, indennizzo, riabilitazione, ecc.). L'indennizzo da parte dello Stato è disciplinato dall'art. 30, par. 2, della Convenzione ed è accordato alle vittime se la riparazione non è garantita da altre fonti.
Ampio spazio viene dato dalla Convenzione alla prevenzione della violenza contro le donne e della violenza domestica. La prevenzione richiede un profondo cambiamento di atteggiamenti e il superamento di stereotipi culturali che favoriscono o giustificano l'esistenza di tali forme di violenza. A tale scopo, la Convenzione impegna le Parti non solo ad adottare le misure legislative per prevenire la violenza, ma anche alla promozione di campagne di sensibilizzazione, a favorire nuovi programmi educativi e a formare adeguate figure professionali.
Altro punto fondamentale della Convenzione è la protezione delle vittime. Particolare enfasi viene posta sulla necessità di creare meccanismi di collaborazione per un'azione coordinata tra tutti gli organismi, statali e non, che rivestono un ruolo nella funzione di protezione e sostegno alle donne vittime di violenza, o alle vittime di violenza domestica. Per proteggere le vittime è¨ necessario che sia dato rilievo alle strutture atte al loro accoglimento, attraverso un'attività informativa adeguata che deve tenere conto del fatto che le vittime, nell'immediatezza del fatto, non sono spesso nelle condizioni psico-fisiche di assumere decisioni pienamente informate.
I servizi di supporto possono essere generali (es. servizi sociali o sanitari offerti dalla pubblica amministrazione) oppure specializzati. Fra questi si prevede la creazione di case rifugio e quella di linee telefoniche di sostegno attive notte e giorno. Strutture ad hoc sono inoltre previste per l'accoglienza delle vittime di violenza sessuale.
La Convenzione stabilisce l'obbligo per le Parti di adottare normative che permettano alle vittime di ottenere giustizia, nel campo civile, e compensazioni, in primo luogo dall'offensore, ma anche dalle autorità statali se queste non hanno messo in atto tutte le misure preventive e di tutela volte ad impedire la violenza (sui risarcimenti da parte dello Stato si è già detto più sopra).
La Convenzione individua anche una serie di reati (violenza fisica e psicologica, sessuale, stupro, mutilazioni genitali, ecc.), perseguibili penalmente, quando le violenze siano commesse intenzionalmente e promuove un'armonizzazione delle legislazioni per colmare vuoti normativi a livello nazionale e facilitare la lotta alla violenza anche a livello internazionale. Tra i reati perseguibili penalmente è inserito lo stalking, definito il comportamento intenzionale e minaccioso nei confronti di un'altra persona, che la porta a temere per la propria incolumità . Quanto al matrimonio forzato, vengono distinti i casi nei quali una persona viene costretta a contrarre matrimonio da quelli nei quali una persona viene attirata con l'inganno in un paese estero allo scopo di costringerla a contrarre matrimonio; in quest'ultimo caso, è sanzionabile penalmente anche il solo adescamento, pur in assenza di celebrazione del matrimonio.
La Convenzione torna in più punti sull'inaccettabilità di elementi religiosi o culturali, tra i quali il cosiddetto "onore" a giustificazione delle violenze chiedendo tra l'altro alle Parti di introdurre le misure, legislative o di altro tipo, per garantire che nei procedimenti penali intentati per crimini rientranti nell'ambito della Convenzione, tali elementi non possano essere invocati come attenuante.
In materia di sanzioni, la Convenzione chiede alle Parti di adottare misure per garantire che i reati in essa contemplati siano oggetto di punizioni efficaci, proporzionate e dissuasive, commisurate alla loro gravità.
La Convenzione contiene poi un ampio capitolo di previsioni che riguardano le inchieste giudiziarie, i procedimenti penali e le procedure di legge, a rafforzamento delle disposizioni che delineano diritti e doveri nella Convenzione stessa.
Un Capitolo apposito è dedicato alle donne migranti, incluse quelle senza documenti, e alle donne richiedenti asilo, due categorie particolarmente soggette a violenze di genere. La Convenzione mira ad introdurre un'ottica di genere nei confronti della violenza di cui sono vittime le migranti, ad esempio accordando ad esse la possibilità di ottenere uno status di residente indipendente da quello del coniuge o del partner. Inoltre, viene stabilito l'obbligo di riconoscere la violenza di genere come una forma di persecuzione (ai sensi della Convenzione del 1951 sullo status dei rifugiati) e ribadito l'obbligo di rispettare il diritto del non-respingimento per le vittime di violenza contro le donne.
La Convenzione istituisce infine un Gruppo di esperti sulla lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica (GREVIO) costituito da esperti indipendenti, incaricati di monitorare l'attuazione della Convenzione da parte degli Stati aderenti. Il monitoraggio avverrà attraverso questionari, visite, inchieste e rapporti sullo stato di conformità degli ordinamenti interni agli standard convenzionali, raccomandazioni generali, ecc.). I privilegi e le immunità ei membri del GREVIO sono oggetto dell'Allegato alla Convenzione.
Come detto, il Parlamento italiano ha autorizzato la ratifica della Convenzione di Istanbul, approvando la legge 27 giugno 2013, n. 77.
Per una consapevole scelta del legislatore, la legge n. 77 non detta norme di adeguamento del nostro ordinamento interno motivate dal pieno rispetto della Convenzione. Ciò in quanto è prevalsa l'esigenza di privilegiare la rapida ratifica della Convenzione, essenziale a consentirne l'entrata in vigore; rapida ratifica che sarebbe stata ostacolata da un contenuto normativo più complesso. Concluso però questo adempimento, Governo e Parlamento hanno tentato di riempire di contenuti questa ratifica con il decreto-legge n. 93 del 2013 e la sua conversione in legge.
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