Se tu o un tuo familiare avete subito danni a seguito di errato intervento neuro-chirurgico, potete contattarci tutti i giorni per avere assistenza legale e medico legale al fine di valutare il caso e ottenere il risarcimento di tutti i danni subiti.
Con questo articolo riportiamo un caso trattato dal Tribunale di Ravenna che, con sentenza n. 308 del 4 maggio 2023, ha condannato la clinica al risarcimento di 300mila euro ad un paziente che si era sottoposto ad intervento di decompressione midollare risultato errato, oltre al risarcimento di 30mila euro ciascuno ai suoi familiari.
A inizio 2014 G.F. decideva di sottoporsi a visita specialistica neurochirurgica, stante il progressivo aggravamento delle proprie condizioni di salute ed in particolare delle difficoltà motorie rilevate già da alcuni anni a carico del proprio arto inferiore sinistro.
All'esito di indagini diagnostiche, veniva diagnosticata al paziente una sindrome midollare cervicale a sinistra con deficit prevalente dell'arto inferiore, per la quale veniva data indicazione a trattamento chirurgico di decompressione midollare anteriore da C4 a C6 e fissazione con cages intersomatiche e placca anteriore, eventuale parziale laminectomia C2-3.
Il 13.06.14 F. veniva pertanto ricoverato presso una clinica e il giorno seguente (14.06.2014) era sottoposto ad intervento chirurgico di Microdiscectomia ed osteofitectomia C3-4, C4-5 e C5-6, fissazione con placca Zephir e cage intersomatiche.
Al rientro in reparto dopo l'intervento, intorno alle h. 20.00 il paziente mostrava un peggioramento dell'emilato motorio sx, per cui veniva sottoposto a RMN cervicale, con il seguente esito: il canale vertebrale risulta notevolmente ridotto in ampiezza con alterazione del segnale nell'ambito del midollo spinale come da mielomalacia nel tratto C3-C5.
Il 18.06.2014 F. veniva dimesso dalla clinica e trasferito presso in ospedale, per eseguire la riabilitazione.
Tuttavia, in data 13.07.14 si manifestavano iperpiressia e dolore persistente a livello cervicale.
Il 16.07.14 si rilevava tumefazione fluttuante al collo, regione antero-inferiore sinistra, in corrispondenza di cicatrice chirurgica e nei giorni immediatamente successivi, si constatavano abbondanti fuoriuscite di materiale sieropurulento dalla ferita, aumento di volume della tumefazione e rialzo febbrile.
Nella notte del 19.07.14 si presentava febbre molto elevata (>40°), ulteriore incremento della tumefazione e riconoscimento della presenza di una fistola esofagea, dato che quando il sig. F. beveva si aveva fuoriuscita di acqua dalla lesione cutanea.
Gli esami cui il paziente veniva sottoposto, tra cui ecografia e TAC del collo, confermavano la presenza di fistola occupata in parte d'aria e in parte da mezzo di contrasto iodato somministrato.
Veniva pertanto data dagli specialisti che seguivano il paziente indicazione di procedere ad intervento di plastica esofagea.
Il 23.07.14 F. veniva pertanto trasferito presso la divisione di chirurgia toracica della clinica e il giorno seguente era sottoposto a intervento chirurgico di riparazione della fistola esofagea.
Nel referto operatorio è tra l'altro annotato: la mobilizzazione del blocco faringo esofageo, attratto verso l'alto, procede medialmente sino a scoprire completamente la placca di zephir, impiantata da C6 a C3. Le 2 viti anteriori sono molto mobili a causa del processo infiammatorio in atto....asportazione...delle 6 viti e della placca, courettage nei siti di inserzione delle viti e del piano osseo sotto fasciale. La cage tra C5 e C6 è mobile ed esposta per cui viene rimossa.
Durante il decorso post operatorio insorgevano difficoltà nella deglutizione dei liquidi, con frequenti episodi di inalazione intra e post deglutitoria.
Il 5.8.2018 il paziente veniva dimesso e reinviato all'ospedale per il completamento dell'iter riabilitativo.
Veniva infine dimesso in data 25.09.2014 con diagnosi di: esiti di intervento neurochirurgico al rachide cervicale, con emiparesi sinistra, postumi di reintervento per fistola esofagea e infezione in sede chirurgica.
Anche in seguito e nonostante la riabilitazione, il F. continuava a soffrire di numerosi disturbi dovuti alla difficoltà nel deambulare e di svolgere altre attività, risultando fortemente compromesso l'uso di tutto l'emi-lato sinistro, compresi il braccio e la mano, come del resto attestato dagli esiti di successive visite specialistiche ed esami.
In conclusione, all'esito della descritta vicenda, il F. si ritrova afflitto da emiparesi spastica a sinistra, estesa, oltre che all'arto inferiore, anche a quello superiore.
Il paziente richiedeva una consulenza a uno specialista di propria fiducia (Prof. F. C.).
Quest'ultimo, pur condividendo l'indicazione di intervento chirurgico a suo tempo formulata terapeutica, criticava le modalità dell'espletamento dell'atto chirurgico evidenziando in particolare che: la tecnica impiegata non ha consentito l'ampliamento dei diametri dello speco vertebrale per cui il midollo ha dovuto sopportare in spazi ristretti un importante trauma operatorio non seguito da adeguata decompressione e che l'intervento in questione non solo non ha prodotto efficaci modificazioni dei diametri canalari, ma ha aggiunto il danno malacico midollare legato alle pur inevitabili manipolazioni chirurgiche documentato radiologicamente.
Inoltre, sempre secondo il consulente di parte, risulta criticabile la decisione di non reintervenire immediatamente dopo il primo intervento appena è comparso l'incremento del deficit neurologico, per portare a termine una del tutto possibile decompressione.
Infine, circa la perforazione della parete posteriore della faringe, il consulente rilevava che questa è stata conseguenza diretta della fuoriuscita dalla loro sede di entrambe le viti inserite su C6, come documentato con certezza dalle immagini dell'esame rx eseguito 22.07.
In particolare, secondo il consulente, l'espulsione delle viti era avvenuta nel contesto di un processo infettivo che doveva essere in atto già da un certo tempo e che ciò sia avvenuto in presenza di una infezione ne fa attribuire chiaramente l'origine a una contaminazione intraoperatoria con conseguente infezione che ha compromesso la tenuta del tessuto osseo ove erano inserite le viti.
Analoghi profili di anomalia venivano rilevati dal consulente, medico legale e specializzato in Clinica Ortopedica e Traumatologia, dott. M., il quale tra l'altro osservava che l'incongruità dell'intervento ha determinato menomazioni di maggior rilievo rispetto a quanto sarebbe intervenuto in esito a congruo trattamento chirurgico.
I periti nominati dal Tribunale riferiscono che, circa la scelta del tipo di intervento e le modalità tecniche della sua esecuzione, l'intervento NCH di decompressione poteva essere eseguito per via anteriore o posteriore (Bibl 1,2,3,4,6,10).
La scelta della via anteriore trova nel caso di specie, maggiore indicazione per la necessità di rimuovere le protrusioni discali e gli osteofiti duri che rappresentavano la componente di maggior rilievo, oltre alla ipertrofia e al corrugamento del legamento giallo posteriore che sempre accompagna le discopatie cervicali.
Tuttavia non appare corretta la scelta di accedere allo spazio perimidollare anteriore attraverso la stretta luce di una discectomia.
La principale causa dell'evento avverso è sostenuta da una contusione midollare (si vedano immagini RMN cervicale post-operatoria del 14.6.14) prodotta da manovre difficoltose per rimuovere a livello C3 C4 i becchi osteofitosici duri.
Tant'è che la rimozione di questi non è avvenuta correttamente (così come ai livelli inferiori), la stenosi è rimasta iconograficamente invariata ai controlli RMN post operatori, e la malacia midollare ha una base massima a questo livello, in estensione caudale.
L'approccio anteriore appare quindi topograficamente corretto, ma sarebbe stato necessario eseguire somatectomia (= rimozione del corpo vertebrale) nei livelli che presentavano maggiore degenerazione, al fine di ottenere adeguata decompressione senza produrre contusioni midollari (Bibl 7,8,9).
Anche la fissazione della placca Zephir mostra importanti elementi di criticità nell'uso di viti che produrranno il successivo evento avverso.
Le due viti superiori ed inferiori di 15 mm, appaiono corte e non sufficientemente ancorate nel corpo vertebrale, soprattutto a livello inferiore di C5, dove la vertebra aumenta fisiologicamente di volume, e dove si concentrano le forze di resistenza ai movimenti di flesso estensione (le viti mediane centrali sono invece di 17 mm).
In breve tempo le viti inferiori si mobilizzeranno e quella di sin., completamente fuoriuscita, andrà a decubitare sulla parete della faringe provocando una lesione e una successiva infezione inizialmente localizzata, che NON raggiungerà, fortunatamente, i piani profondi infettando le cages.
Sussistono quindi profili di colpa addebitabili ai neurochirurghi, con particolare riferimento al I° operatore, che hanno eseguito l'intervento, conseguenti alle inadeguatezze tecniche identificate.
Tanto premesso, ad avviso del Tribunale le valutazioni espresse nella richiamata C.T.U. appaiono pienamente condivisibili, avendo i consulenti attentamente esaminato la storia clinica del paziente, dalla diagnosi della patologia, delle relative scelte terapeutiche e modalità della loro attuazione, operando una consapevole e ponderata valutazione dei referti in atti e pervenendo infine a conclusioni logicamente argomentate.
Da tali valutazione emergono chiaramente profili di imperizia nell'intervento chirurgico cui il F. è stato sottoposto il 14.6.2014, sostanziatisi, come detto nella scelta di accedere allo spazio perimidollare anteriore attraverso la stretta luce di una discectomia (che ha determinato una contusione midollare prodotta da manovre difficoltose per rimuovere a livello C3 C4 i becchi osteofitosici duri) e la fissazione della placca Zephir mediante viti troppo corte rispetto a quanto richiesto e non sufficientemente ancorate nel corpo vertebrale (che ha determinato l'insorgenza di infezione localizzata).
Sul piano del quantum debeatur, si rileva che i c.t.u. - le cui conclusioni sono, anche sul punto, condivise dal Tribunale - hanno ritenuto integrato a carico dell'odierno attore un danno biologico permanente quantificabile nella misura del 55%, specificando che il danno biologico atteso in caso di esito favorevole dell'intervento può quantificarsi nella misura del 25%; ne consegue che il maggior danno di tipo differenziale, conseguente alle censurabili condotte sanitarie, come più sopra individuate, deve essere collocato nella fascia compresa fra il 26% compreso, e il 55% compreso.
Tanto premesso, quanto al danno biologico permanente, in applicazione delle tabelle in uso presso il Tribunale di Milano (edizione 2021-2022) e tenuto conto dell'età del soggetto (69 anni, all'epoca del fatto), lo stesso si determina in E. 372.013,00 da cui va sottratto l'importo di E. 88.252,00 (corrispondente al grado di invalidità che si sarebbe comunque riscontrato a seguito dell'intervento chirurgico, qualora correttamente eseguito), giungendosi così all'importo di E. 283.761,00.
Per quanto riguarda il danno biologico da ITT ed ITP, applicando il valore di E 99,00 per ciascun giorno di invalidità si ha la somma di E 18.067,50.
In definitiva, sulla base della valutazione operata dal CTU, il danno biologico, permanente e temporaneo, subito da F.G., ammonta ad euro 301.828,50.
Il Tribunale accoglie anche la domanda risarcitoria avanzata dai congiunti, G.D. e F.G. relativa al danno non patrimoniale consistito nel dolore e afflizione provati per la sofferenza del proprio caro (cfr. Cass. civ. sez. U, n. 9556 del 01/07/2002).
In particolare, la giurisprudenza di legittimità ha chiarito che, in tema di pregiudizio derivante da perdita o lesione del rapporto parentale, il giudice è tenuto a verificare, in base alle evidenze probatorie acquisite, se sussistano uno o entrambi i profili di cui si compone l'unitario danno non patrimoniale subito dal prossimo congiunto e, cioè, l'interiore sofferenza morale soggettiva e quella riflessa sul piano dinamico-relazionale, nonché ad apprezzare la gravità ed effettiva entità del danno in considerazione dei concreti rapporti col congiunto, anche ricorrendo ad elementi presuntivi quali la maggiore o minore prossimità del legame parentale, la qualità dei legami affettivi (anche se al di fuori di una configurazione formale), la sopravvivenza di altri congiunti, la convivenza o meno col danneggiato, l'età delle parti ed ogni altra circostanza del caso (cfr. Cass. civ. sez. 3 n. 28989 del 11/11/2019).
Nel caso di specie, tenuto conto dei concreti rapporti dei richiedenti (rispettivamente convivente more uxorio e figlio) con il congiunto e dell'entità del pregiudizio da questi riportato, appare equitativamente liquidabile un risarcimento pari a E. 30.000,00 per ciascuno dei richiedenti.
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