Il Tribunale di Chieti, con la sentenza n. 204 del 18 aprile 2023, ha riconosciuto ai familiari di un paziente deceduto per colpa medica il risarcimento dei danni da perdita del rapporto parentale.
Si tratta del caso di un paziente che è entrato in ospedale per una colica biliare ed è poi morto per sepsi e sindrome da disfunzione multiorgano.
Secondo i periti incaricati dal Tribunale, i medici hanno fatto più di un errore, sia nell’esecuzione di esami che di interventi, non attenendosi alle linee guida.
Riportiamo i passi salienti della sentenza e invitiamo i familiari di chi è stato vittima di un caso analogo a contattarci per assistenza legale volta ad ottenere il risarcimento!
In data 13 gennaio 2004 il paziente Ca. Ca. si è recato presso il Pronto Soccorso lamentando di avere da alcuni giorni dolore epigastrico; il medico di turno ha visitato il paziente ed ha annotato: “Addome dolente alla palpazione dell'epigastrio ed ipocondrio dx. Murphy +, ECG, prelievo per esami. Terapia fisiologica 250 con 2 fl buscopan”.
Il sanitario a quel punto ha richiesta una consulenza radiodiagnostica, la quale ha rilevato, oltre una ipertrofia del ventricolo sinistro, una “iniziale sovradistensione delle anse (...) presenza di alcune LIA (livelli idroaerei- ndr)”. È stata effettuata anche una ecografia all'addome, dalla quale è emerso “Litisi multipla della colecisti, con ispessimento della parete”.
Sono stati riportati gli interventi subiti “nel 1998 resezione transuretrale per ipertrofia prostatica (...) nel 2000 intervento per ORL (...) nel 2000 intervento chirurgico per ernia inguinale dx”; inoltre si segnala il paziente come “iperteso” e si annota la terapia in atto: CASODEX (farmaco costituito da un ormone antiandrogeno che tipicamente viene assunto per contrastare il cancro della prostata).
Sulla base di tali elementi di anamnesi i periti incaricati dal Tribunale concludono che il paziente è ricorso ai sanitari in quanto preda, con certezza, di una colica biliare.
A questo punto, il Pronto Soccorso ha trasferito il paziente in chirurgia con diagnosi di “Colecisti litiasica (c. Multipla) sospetta calcolosi del coledoco. Ipertensione. K prostatico in trattamento”.
Una volta in reparto, il paziente ha eseguito altra ecografia all'addome, che così riporta: “esame ostacolato da marcato meteorismo. Fegato: lievemente ingrandito con ecostruttura iperecogena come da steatosi VSE e VG di calibro regolare. Vie biliari intra epatiche con iniziale dilatazione a sinistra. Colecisti con pareti molto ispessite e calcoli nel lume. Via biliare principale dilatata di circa 10 mm. Nel tratto medio si osserva una formazione ecogena endoluminale di 1 cm come da verosimile calcolo. Pancreas non visualizzabile per meteorismo. Milza di volume normale con regolare ecostruttura. Vena porta a decorso regolare con calibro nei limiti. Rene destro in sede normoconformato. Rene sinistro in sede, con due cisti corticali di circa 3 cm.” Specificano gli ausiliari che che la sensibilità dell'ecografia addominale nella valutazione della calcolosi delle vie biliari va dal 20% al 60%.
A questo punto osservano i periti che l'ecografia endoscopica ha una resa migliore. Vi era comunque un quadro addominale che riduceva verso il basso il potere diagnostico dell'ecografia e, nel caso in esame, non era certamente diagnostico con certezza per la presenza del calcolo coledocico e, quindi, non risolutivo come indicazione alla chirurgia. Considerando il soggetto anziano con i calcoli piccoli e multipli, la sospetta diagnosi di calcolosi coledocica avrebbe dovuto imporre ai sanitari una conferma tramite una colangio-RMN, prima di optare per la chirurgia. Certamente anche la ERCP è diagnostica, molto precisa, ma è pur sempre un esame invasivo e, secondo le linee guida, prima di procedere in tal senso, è opportuno eseguire una colangio-RMN, esame non invasivo e accreditato di una sensibilità del 95%. Anche qualora vi fossero stati impedimenti a tale esame, secondo le linee guida si poteva eseguire una ecoendoscopia, anch'essa accreditata di una sensibilità pari al 90%. In ogni caso, si è stabilito di far eseguire al Ca. la ERCP in Gastroenterologia.
In merito alla modalità pratica di esecuzione di tale tipo di esame, specificano i cc.tt.uu. che esso è certamente diagnostico per la visualizzazione delle vie biliari, in quanto i dotti biliari e pancreatici sboccano nel duodeno insieme, attraverso un'apertura denominata papilla di Vater. La papilla è circondata da un anello muscolare chiamato sfintere di Oddi e, attraverso di essa, l'endoscopista esegue le sue manovre diagnostiche ed operative. Una volta incanalata la papilla, viene introdotto il mezzo di contrasto e vengono evidenziate nella loro completa ramificazione le vie biliari e pancreatiche ed ovviamente qualsiasi restringimento cicatriziale o da corpo estraneo intra o extra luminale viene messo in evidenza. Nel caso, viene poi eseguita la sfinterotomia, cioè il taglio del muscolo che circonda lo sbocco dei dotti, la papilla. Tale operazione viene eseguita al fine di allargare l'apertura della papilla e consentire di procedere con altri trattamenti attraverso il dotto biliare e quello pancreatico.
Tanto specificato in ordine alla modalità di esecuzione dell'esame, dalla cartella clinica emerge che, nel caso del Ca., la papilla si presentava nel duodeno in sede peridiverticolare, cioè posizionata nei pressi di un diverticolo duodenale e, quindi, in modo da determinare difficoltà all'incannulamento. Infatti, nonostante vari tentativi, i sanitari non sono riusciti ad eseguire l'esame, il quale, invece, ha determinato una sofferenza del pancreas; è stata somministrata una fiala endovena di Mepral e si è deciso, quindi, di trasferire nuovamente il paziente in OC di Lanciano, dove i parametri clinico laboratoristici evidenziavano un aumento degli indici di funzionalità renale (urea 69 mg/dl, creatinina 1.38 mg/dl) ed un aumento delle amilasi sieriche (272 U/l). Una radiografia dell'addome in bianco ha escluso aria libera, evidenziando sovradistensione delle anse con presenza di livelli idroaerei.
Il giorno successivo è stata eseguita una radiografia del torace, che ha escluso lesioni flogistiche a focolaio in atto e ha fatto apprezzare sopraelevazione dell'emidiaframma destro con fenomeni disventilatori del parenchima circostante e un'immagine cardiaca ingrandita. Gli esami ematochimici hanno confermato un aumento degli indici di funzionalità renale (urea 57 mg/dl, creatinina 1.36 mg/dl), una riduzione delle amilasi (96 U/l), incremento delle lipasi (136 U/L) e della bilirubina (tot 3.35 mg/dl, diretta 1.85 mg/dl, indiretta 1.5 mg/dl).
In data 24 gennaio 2004 si è assistito a una normalizzazione delle amilasi e lipasi sieriche e il paziente non presentava più febbre; pertanto dal giorno successivo il paziente ha ripreso l'alimentazione senza apparenti problemi.
A questo punto dell'iter clinico, i cc.tt.uu. osservano che, considerata la storia clinica e la permanenza dei dubbi diagnostici circa la calcolosi coledocica, sarebbe stata certamente auspicabile l'esecuzione di una colangio-RMN ma, in data 30 gennaio 2004, i sanitari hanno deciso di sottoporre comunque il paziente ad intervento chirurgico, che l'età e le condizioni cliniche generali avrebbero suggerito in laparoscopica. Si è optato, invece, per un intervento a cielo aperto.
L'intervento è iniziato alle ore 15.00 e, tramite incisione sottocostale destra, si è avuto accesso all'ipocondrio destro; repertando colecistite cronica litiasi e via biliare principale dilatata, si è proceduto a colecistectomia e a duodenotomia, al fine di eseguire una papillosfinterotomia. Per la posizione anatomica già descritta, non si è riusciti, anche dopo ripetute manovre mediante sondaggio transcistico con nelaton 8, ad individuare la papilla e, benché si sapesse della difficoltà endoscopica a individuare la papilla senza esplorare le vie biliari, si è aperto il duodeno.
Così descritto l'intervento, gli ausiliari osservano che emerge con evidenza l'errore procedurale. In particolare, una volta eseguita la colecistectomia, doveva eseguirsi una colangiografia intraoperatoria esplorativa e, senza l'evidenziazione di un calcolo, l'intervento si doveva concludere. Qualora, invece, si fosse evidenziato il calcolo coledocico, si poteva eseguire una coledocotomia; si potevano estrarre i calcoli con le pinze e conservare la continuità del coledoco. La coledoco duodenostomia realizzata non trovava neppure indicazione, in considerazione della dilatazione di 10 mm della via biliare, perché tale dilatazione è veramente minima e questo tipo di intervento si eseguiva in tempi passati solo per vie biliari veramente dilatate (20 mm ed oltre), con grossi calcoli in regione papillare che non si potevano eliminare, non esistendo la tecnica ERCP. Quindi era un tipo di intervento che veniva eseguito solo su pazienti anziani, in quanto tale ricostruzione è gravata nel corso del tempo da complicanze infettive importanti; quindi si tratta di un intervento di seconda scelta rispetto ad interventi ricostruttivi su ansa alla Roux.
Il giorno successivo, 1° febbraio 2004, il paziente presentava dolore epigastrico e sul diario infermieristico è stata riportata la perdita di materiale biliare dal drenaggio; in serata la temperatura era ancora di 38,2°C e si riportavano 25 cc di materiale biliare dal drenaggio addominale.
In data 2 febbraio 2004 gli esami ematochimici hanno evidenziato leucocitosi (GB 14.160) e peggioramento degli indici di funzionalità renale (Creatinina 1.44 mg/dl). Una radiografia del torace, eseguita in data 3 febbraio 2004 ha evidenziato “velatura pleurogena dell'intero polmone destro”.
Con il passare dei giorni le perdite biliari dal drenaggio sono aumentate e il paziente si è mantenuto piretico, nonostante la terapia antibiotica.
In data 6 febbraio 2004 nel diario infermieristico è stata riportata la presenza in serata, alle ore 22.00, di 300 cc di materiale “stercoraceo”. Nonostante tale evidenza, si sono attesi altri giorni prima di far eseguire l'11 febbraio 2004 una radiografia del tubo digerente delle prime vie con m.d.c. idrosolubile, la quale ha rilevato “spandimento di m.d.c. periduodenale con vie biliari opacizzate da verosimile deiscenza dell'anastomosi coledoco-duodenale”.
Un esame colturale del liquido di drenaggio, eseguito in data 14 febbraio 2004, ha rilevato la presenza di Candida tropicalis. A parere degli ausiliari, è evidente lo spandimento di materiale enterico dal duodeno che, unitamente alla bile, permaneva in peritoneo per 10 giorni, rendendo praticamente impraticabile qualsiasi tipo di chirurgia ripartiva.
A questo punto osservano i cc.tt.uu. che, per esperienza comune, più i giorni passano in un caso di questo tipo, più al re-intervento si incontrano aderenze che rendono difficoltoso l'intervento; i tessuti inoltre sono estremamente flogistici, dando scarsa sicurezza nel confezionare le anastomosi. Ciò nonostante, sono stati attesi ben dieci giorni e solo in data 20 febbraio 2004 il paziente è stato riportato in sala operatoria.
In tale occasione, i chirurghi hanno smontato l'anastomosi coledoco digiunale, hanno suturato il duodeno e hanno confezionato una anastomosi epatico - digiuno alla Roux ed una anastomosi gastro-digiunale, non specificando però su quale ansa.
Nonostante l'intervento, continuava a persistere lo stato settico generalizzato.
Dopo tre giorni, in data 23 febbraio 2004, è stata ripetuta una radiografia del tubo digerente prime vie con m.d.c. idrosolubile, che ha evidenziato in corrispondenza della seconda porzione duodenale, spandimento di m.d.c. da fistola; osservano gli ausiliari che sul perché vi fosse una perforazione in tale punto, non è dato sapere, anche perché la seconda porzione duodenale è interamente retroperitoneale e, quindi, il liquido che fuoriesce non avrebbe dovuto inquinare il cavo peritoneale. Suppongono gli ausiliari che sia stata fatta una manovra di Coker; infatti la perforazione della parete posteriore duodenale può essere stata causata solo dalle manovre di scollamento del duodeno durante la kockerizzazione dello stesso.
Dopo l'intervento, come da cartella clinica, il paziente è stato riportato in sala operatoria alle ore 15.00 circa. Mediante il medesimo accesso chirurgico, è stato repertato abbondante liquido con caratteristiche sia biliari che ematiche. Sono state controllate le anastomosi epatico- digiunale, gastro-digiunale ed ileo-ileale e tutte sono apparse pervie e a tenuta. Iniettando blue di metilene dall'ansa digiunale, si è notata la fuoriuscita dello stesso dalla parete posteriore della seconda porzione duodenale. Si è repertato il foro che è stato incannulato con foley da 16 ch. Si è gonfiato il palloncino e si è controllata la tenuta. A quel punto si è optato per un drenaggio esterno, in quanto le condizioni del paziente e lo stato di flogosi dei tessuti non rendevano permissive per una duodeno-cefalopancreasectomia. È stato quindi portato fuori dalla parete addominale il foley ed è stato messo Tissucol nell'area che circondava il foro.
Purtroppo le condizioni del Ca. si sono aggravate ulteriormente nei due giorni successivi e in data 26 febbraio 2004 è stato constatato il decesso che, sulla scorta dei dati clinici, risulta dovuto a sepsi severa, come provato dalla presenza dei parametri sufficienti per definirla tale (SIRS + provata infezione + deficit d'organo o MODS) secondo le linee guida vigenti al tempo e odierne.
Sulla base della storia clinica vissuta da Ca. Ca., per come ricostruita dalla documentazione sanitaria, gli ausiliari hanno rilevato “un insieme importante di errori che vanno dalla indicazione dubbia all'intervento, da una mancanza di studio completo secondo le linee guida e secondo la buona pratica clinica, un approccio chirurgico completamente errato in quanto, per una sospetta calcolosi del coledoco, si procede attraverso una chirurgia trans duodenale con un “ approccio chirurgico ante anni 50”.
Nella relazione la vicenda viene sintetizzata nei termini che seguono: “il Signor Ca. entra in ospedale di Lanciano per colica biliare e muore per SIRS e MODS. La condotta al primo intervento è errata; Essendo stato infruttuoso l'accertamento tramite ERCP non fu eseguita una colangio RMN o al limite una RMN standard che avrebbero consentito una sensibilità diagnostica al 96% ed orientato verso un intervento corretto. Il secondo intervento fu eseguito senza accertamenti diagnostici corretti con un comportamento censurabile in quanto omissivo e con trattamento chirurgico errato come meglio sopra specificato, al di fuori di ogni linea guida anche all'epoca dei fatti (2004). Si ribadisce che nel corso dell'intervento non è stato mai esplorata la via biliare, si è proceduto ad una sutura inadeguata, un intervento censurabilmente invasivo e non necessario e dopo il primo intervento si è ritardato per giorni l'esecuzione dell'RX addome, si è ritardato il secondo intervento, non è stato mai chiesta una consulenza almeno anestesiologica visto l'evidente aggravamento”.
Le osservazioni scientifiche svolte dai cc.tt.uu. e poste alla base delle loro conclusioni sono fondate su considerazioni estremamente analitiche, fondate su una evidente logica intrinseca e confortate da ampi e continui riferimenti a letteratura scientifica.
Sulla base di quanto sopra, il giudice ritiene di dover pienamente condividere le conclusioni degli ausiliari e, quindi, concludere affermando che, nel caso in esame, vi è responsabilità in capo ai sanitari.
Allo scopo di “monetizzare” la sofferenza d'animo che consegue alla perdita di un prossimo congiunto e di evitare, al contempo, il rischio di decisioni rimesse all'arbitrio del singolo, la giurisprudenza di merito ha, da tempo, elaborato un sistema tabellare.
Per la liquidazione di tale danno, peraltro, la giurisprudenza ha elaborato una serie di parametri, che tengono conto dei seguenti elementi: l'età del defunto, sul presupposto che quanto più sia avanzata, tanto meno intenso sarà il dolore per la perdita, perché quest'ultimo sarebbe stato comunque provato in un prossimo futuro; l'età del congiunto che domanda il risarcimento, sul presupposto che gli adulti facciano fronte alle emozioni con maggiore forza d'animo ed elaborino il lutto più agevolmente dei bambini e dei ragazzi; il rapporto di parentela tra la vittima ed il superstite, sul presupposto che quanto più esso è stretto, maggiore è il dolore causato dalla sua interruzione; la convivenza col defunto, sul presupposto che, dove questa vi fosse, la perdita della persona cara produce una maggiore sofferenza in considerazione dell'inevitabile mutamento dello stile di vita del superstite; la composizione del nucleo familiare, sul presupposto che la vicinanza di persone care nei momenti di dolore è un valido aiuto al superamento del lutto e che, per contro, la solitudine aggrava la sofferenza; le modalità di commissione dell'illecito, sul presupposto che quanto più queste siano state efferate, drammatiche o addirittura tragiche, tanto più acuto sarà il dolore provato dalla famiglia della vittima.
La Corte di Cassazione, nel tentativo di realizzare un equo contemperamento tra l'esigenza di uniformità nella liquidazione del danno non patrimoniale e la realizzazione di un sufficiente grado di personalizzazione della liquidazione in considerazione delle peculiarità del caso concreto, ha di recente espresso una predilezione per il sistema per punti variabili adottato dalle tabelle del Tribunale di Roma.
Pertanto, in base a tali tabelle, considerato che all'epoca dei fatti la vittima aveva 76 anni e che i figli e i fratelli della vittima non erano conviventi e hanno altri rapporti familiari (dato non contestato), il danno da perdita del rapporto parentale può essere così liquidato:
- per Ev. Sa., di anni 66 al momento della morte del marito, coniuge e convivente con la vittima, senza nucleo familiare composto da altri conviventi entro il secondo grado di parentela: € 334.007,70;
- per Lu. Ca., di anni 45 al momento della morte del padre, figlio della vittima e non convivente, con nucleo familiare composto da altri conviventi entro il secondo grado di parentela: € 225.554,10;
- per Ma. Ca., di anni 41 al momento della morte del padre, figlia della vittima e non convivente, con nucleo familiare composto da altri conviventi entro il secondo grado di parentela: € 225.554,10;
- per Co. Ca., di anni 66 al momento della morte del fratello, sorella della vittima, non convivente, con nucleo familiare composto da altri conviventi entro il secondo grado di parentela: € 107.873,70;
- per Ga. Co. Ca., di anni 73 al momento della morte del fratello, fratello della vittima, non convivente con nucleo familiare composto da altri conviventi entro il secondo grado di parentela: € 107.873,70;
- per gli eredi di Ma. Ca., di anni 69 al momento della morte del fratello, sorella della vittima, non convivente con nucleo familiare composto da altri conviventi entro il secondo grado di parentela: € 107.873,70.
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