Con questo articolo prendiamo spunto dalla sentenza n. 24331 del 26.04.2023 della Corte di Cassazione Sezione VI Penale, per evidenziare che quando vi sono liti tra ex partners dopo la fine della convivenza non si tratta di maltrattamenti in famiglia ma del reato di stalking.
Prima di riportare quanto ha affermato la Corte di Cassazione, parliamo della differenza tra i due reati.
Il reato di maltrattamenti in famiglia è previsto dall’art. 572 del codice penale che prevede quanto segue.
Chiunque, fuori dei casi indicati nell'articolo 571 c. p. (abuso dei mezzi di correzione o di disciplina), maltratta una persona della famiglia o comunque convivente, o una persona sottoposta alla sua autorità o a lui affidata per ragioni di educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia, o per l'esercizio di una professione o di un'arte, è punito con la reclusione da tre a sette anni.
La pena è aumentata fino alla metà se il fatto è commesso in presenza o in danno di persona minore, di donna in stato di gravidanza o di persona con disabilità come definita ai sensi dell'articolo 3 della legge 5 febbraio 1992, n. 104, ovvero se il fatto è commesso con armi.
Se dal fatto deriva una lesione personale grave, si applica la reclusione da quattro a nove anni; se ne deriva una lesione gravissima, la reclusione da sette a quindici anni; se ne deriva la morte, la reclusione da dodici a ventiquattro anni.
Il minore di anni diciotto che assiste ai maltrattamenti di cui al presente articolo si considera persona offesa dal reato.
Il reato di stalking (correttamente detto di “atti persecutori”) è previsto dall’art. 612 bis del codice penale che prevede quanto segue.
Salvo che il fatto costituisca più grave reato, è punito con la reclusione da un anno a sei anni e sei mesi chiunque, con condotte reiterate, minaccia o molesta taluno in modo da cagionare un perdurante e grave stato di ansia o di paura ovvero da ingenerare un fondato timore per l'incolumità propria o di un prossimo congiunto o di persona al medesimo legata da relazione affettiva ovvero da costringere lo stesso ad alterare le proprie abitudini di vita.
La pena è aumentata se il fatto è commesso dal coniuge, anche separato o divorziato, o da persona che è o è stata legata da relazione affettiva alla persona offesa ovvero se il fatto è commesso attraverso strumenti informatici o telematici.
La pena è aumentata fino alla metà se il fatto è commesso a danno di un minore, di una donna in stato di gravidanza o di una persona con disabilità di cui all'articolo 3 della legge 5 febbraio 1992, n. 104, ovvero con armi o da persona travisata.
Il delitto è punito a querela della persona offesa. Il termine per la proposizione della querela è di sei mesi. La remissione della querela può essere soltanto processuale. La querela è comunque irrevocabile se il fatto è stato commesso mediante minacce reiterate nei modi di cui all'articolo 612, secondo comma. Si procede tuttavia d'ufficio se il fatto è commesso nei confronti di un minore o di una persona con disabilità di cui all'articolo 3 della legge 5 febbraio 1992, n. 104, nonché quando il fatto è connesso con altro delitto per il quale si deve procedere d'ufficio.
Con la sentenza che abbiamo sopra citato, è stato affermato che “non è configurabile il reato di maltrattamenti in famiglia, bensì l'ipotesi aggravata del reato di atti persecutori, in presenza di condotte illecite poste in essere da parte di uno dei conviventi "more uxorio" ai danni dell'altro dopo la cessazione della convivenza”.
Ritenuto in fatto
1. II Procuratore generale presso la Corte di appello di Palermo impugna la sentenza nei confronti di B.G. con la quale la Corte di appello, in riforma della sentenza di condanna di primo grado, ha dichiarato estinto per intervenuta remissione di querela il reato di cui all'art. 612-bis c.p., commesso in (...) e (omissis) sino al (omissis) e ha assolto l'imputato dal reato di cui. all'art. art. 572 c.p. commesso in (omissis) ed (...), reati commessi in danno di F.E. con la quale l'imputato aveva avviato una relazione sentimentale della durata di circa un anno e messo che, nel periodo dal (omissis) aveva comportato anche una convivenza, poi interrotta.
2. Il Procuratore generale ricorrente denuncia, con motivi di seguito sintetizzati ai sensi dell'art. 173 disp. att. c.p.p. nei limiti strettamente indispensabili ai fini della motivazione, l'erronea applicazione della legge penale e vizi cumulativi di motivazione in relazione alla perimetrazione temporale delle condotte violente agite dall'imputato, ai fini della configurabilità del reato di maltrattamenti e considerando solo tre episodi di violenza, rispetto alla ricostruzione compiuta dal Tribunale che aveva ritenuto sussistenti ulteriori episodi di lesione, anche risalenti e contestati unitariamente sub capo D). Erroneamente la Corte ha datato la fine della relazione al 19 settembre 2017 laddove il Tribunale aveva considerato un più ampio arco temporale, cioè fino a dicembre 2017. Ulteriore erronea applicazione della legge penale discende dalla riconducibilità dello stato di conflittualità alla reattività della persona offesa e alla irrilevanza della querela, ai fini della configurabilità del reato di atti persecutori.
Considerato in diritto
1. II ricorso è inammissibile perché proposto per motivi generici e manifestamente infondati.
Ai fini di chiarezza e di intelligibilità del ricorso va rilevato che si era proceduto a carico dell'imputato anche per i reati di tentata violenza sessuale (ascritto al capo A) delle imputazioni, commesso in (...), nella notte fra il (omissis) ) e lesioni (ascritto al capo B) della rubrica, commesso nella notte fra il (omissis) , reato, questo, per il quale già in primo grado era intervenuta sentenza di proscioglimento dell'imputato per remissione di querela (l'imputato è stato assolto in appello anche dal reato di tentata violenza sessuale con una decisione che non è impugnata). In primo grado, inoltre, il Tribunale aveva perimetrato la condotta di maltrattamenti sub capo D) ai fatti commessi fino al (omissis) , epoca di cessazione della convivenza. Evidentemente costituisce un refuso, a fronte della sentenza di appello che riporta tutti i capì di imputazione, il riferimento del ricorrente al reato di cui al capo B) che, per come si evidenzia nella parte motiva del ricorso, lo stesso ricorrente riconduce al reato di atti persecutori.
Anche alla luce di queste precisazioni, il ricorso si appalesa inammissibile perché volto, a fronte di una sentenza di assoluzione incentrata sul ragionevole dubbio in ordine al giudizio di inattendibilità delle dichiarazioni rese dalla persona offesa, a proporre una rivalutazione della fonte di prova, punto della decisione, questo, innestato su una corretta ricostruzione della configurabilità e interrelazioni tra il delitto di atti persecutori e quello di maltrattamenti in ragione della sussistenza, al momento dei fatti, come contestati e ritenuti, di un rapporto di convivenza tra le parti, poi cessato.
Secondo le precisa ricostruzione in fatto svolta fin dalla sentenza di primo grado era risultato accertato che già a (omissis) (e non a (omissis) ) il rapporto di convivenza tra l'imputato e la persona offesa si era risolto.
Al riguardo questa Corte ha precisato che non è configurabile il reato di maltrattamenti in famiglia, bensì l'ipotesi aggravata del reato di atti persecutori, in presenza di condotte illecite poste in essere da parte di uno dei conviventi "more uxorio" ai danni dell'altro dopo la cessazione della convivenza (Sez. 6, n. 45095 del 17/11/2021, H, Rv. 282398).
Correttamente, pertanto, in linea con tale indirizzo ermeneutico, la Corte di appello ha esaminato le dichiarazioni della persona offesa sia con riguardo al delitto di maltrattamenti (condotta contestata fino al (omissis) ) che quello di atti persecutori, commesso dall'imputato ai danni della ex convivente quando, in più occasioni insistentemente aveva sollecitato la ripresa del rapporto molestandola e minacciandola e le aveva, poi, contestato le denunce proposte contro di lui, condotta, questa, contestata come commessa in (omissis) fino al (omissis).
Poste queste premesse emerge a tutta evidenza la aspecificità del ricorso che non si confronta con la ricostruzione in fatto richiamando la sentenza di primo grado, alla quale, invece, si è allineata quella impugnata nella ricostruzione dei fatti e del periodo temporale di commissione del reato di maltrattamenti.
Ma il ricorso è anche manifestamente infondato.
Come anticipato, le valutazioni della Corte di merito, sul giudizio di attendibilità della persona offesa, sono complete e insuscettibili, in questa sede, di censura risolvendosi, in assenza di evidenti illogicità della motivazione, nella richiesta di una rilettura delle prove.
La Corte di appello ha, infatti, esaminato le alterne dichiarazioni rese dalla persona offesa che si innestano su una relazione caratterizzata da alti e bassi, molto controversa nella ricostruzione della dinamica dei rapporti interpersonali poiché i testi escussi hanno riferito che anche la persona offesa era adusa a perdere l'autocontrollo con frequenti crisi di nervi e comportamenti aggressivi, dispiegati anche in danno dei congiunti del compagno.
Le valutazioni della Corte di merito refluiscono nella ricostruzione delle condotte abusanti che sarebbero consistite in episodi di danneggiamento dell'auto della F. (l'episodio di (omissis) ); danneggiamento di suppellettili di casa, dell'inizio (omissis) , episodio in cui l'imputato l'aveva spinta gettandola in terra e quello del (omissis) quando, dopo averla cacciata di casa e caricato sull'auto le sue cose, l'imputato l'aveva colpita, tentando di chiudere il bagagliaio, con il portellone, come relazionato dai Carabinieri presenti ai fatti. Tali episodi, gli ultimi due diretti alla persona, appaiono riconducibili ad atti di violenza ma, si inquadrano, secondo le dichiarazioni acquisite, in un contesto caratterizzato da condotte omologhe realizzate dalla vittima, usa, a propria volta, gettare in terra, durante le liti, oggetti, sedie e piatti.
Si tratta, inoltre, di condotte avvenute a distanza di tempo l'una dalle altre e le ultime due quando, oramai, le liti riguardavano la interruzione del mènage e non univocamente riconducibili ad una vera e propria forma di aggressione personale. Solo in sede di integrazione della denuncia, nel dicembre 2018, la persona offesa, in merito all'episodio dei primi di settembre, aveva precisato che l'imputato l'aveva picchiata mentre, in precedenza, aveva sostenuto che, durante la lite, l'imputato l'aveva gettata in terra; con riguardo all'episodio del (omissis) , invece, avvenuto alla presenza dei carabinieri, non emerge la volontarietà quanto, piuttosto, in un contesto di reciproca alterazione, l'accidentalità del gesto.
Va, infine, per completezza rilevato, in merito all'episodio di tentata violenza sessuale del (omissis) , che nella prospettazione del ricorrente costituirebbe un episodio inquadrabile nei maltrattamenti, che la sentenza di appello (con una statuizione non oggetto di impugnazione) ha escluso, in presenza di dichiarazioni generiche e fumose della persona offesa, la esistenza di abusi sessuali descrivendo un contesto in cui l'imputato "ci aveva provato" ed entrambi "si erano alzati le mani".
2.Con riferimento al secondo motivo di ricorso, rileva il Collegio che la Corte di merito ha dato atto della intervenuta remissione di querela, in sede processuale, remissione che, tenuto conto della contestazione, era ammissibile dal momento che, ai fini della irrevocabilità della querela ai sensi dell'art. 612-bis, comma quarto, c.p., è necessario che nella imputazione sia contestato in modo chiaro e preciso che la condotta è stata realizzata con minacce reiterate ed integranti i caratteri della circostanza aggravante di cui all'art. 612, comma 2, c.p. (Sez. 5, n. 3034 del 17/12/2020, dep. 2021, C, Rv. 280258), nella specie non rilevabile.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso.
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