Il Tribunale Civile di Napoli Nord, con la sentenza n. 292 del 25 gennaio 2023, ha condannato una casa di cura a risarcire per circa 800 mila euro i familiari di un paziente morto per infarto conseguente ad intervento di gastrectomia totale.
I periti del Tribunale hanno infatti accertato che i medici avevano omesso di studiare accuratamente i dati del paziente sia prima di operarlo che dopo; in particolare, gli esami che evidenziavano gravi problematiche cariache da cui, infatti, è poi derivato il decesso.
I congiunti del paziente hanno proposto azione risarcitoria nei confronti della casa di cura esponendo quanto segue:
1) in data 22.07.2013, il paziente, cinquantasettenne, lamentando dolore epigastrico postprandiale, si ricoverava presso la casa di cura ove veniva sottoposto ad alcuni esami volti alla definizione del suo stato patologico e, in data 25.7.2013, gli veniva eseguita una gastroscopia con relative biopsie che evidenziavano un carcinoma con cellule ad anello con castone;
2) i controlli elettrocardiografici effettuati in data 22.7.2013 ed in data 24.7.2013 evidenziavano dapprima una grave tachicardia e poi una bradicardia, indici di sofferenza ischemica e cardiaca;
3) il mattino del 30.7.2013 ilpaziente veniva sottoposto ad intervento chirurgico di gastrectomia totale e poi collocato in terapia intensiva.
4) Alle ore 12:30 del 1.8.2013 veniva trasferito nel reparto di degenza ove - eccetto per un controllo effettuato alle ore 23:00 - non veniva registrato nel diario clinico alcun monitoraggio dei parametri vitali;
5) alle ore 04:00 del 2.8.2013 il personale sanitario rilevava che il paziente presentava sudorazione fredda con tachipnea e grave ipotensione e alle ore 6.30 si registrava un primo arresto cardiorespiratorio;
6) dopo le iniziali manovre rianimatorie, il paziente veniva trasferito nuovamente in terapia intensiva ove, in assenza di ulteriori indagini di laboratorio e strumentali, con un'emodinamica instabile e senza alcun accertamento di specifico interesse, alle ore 10.29, spirava;
7) i sanitari della struttura convenuta, all'indomani del trattamento operatorio, avevano omesso il necessario monitoraggio del paziente e tralasciato l'esecuzione di esami di più specifico interesse nonostante gli esami ECG effettuati nella fase preoperatoria fossero indicativi di una sofferenza ischemica e cardiaca. Il paziente, già privato di ogni assistenza medica per 15 ore nel reparto di chirurgia, pur ricondotto nuovamente in terapia intensiva, non beneficiava di un'adeguata prestazione medica che poteva ancora salvargli la vita, poiché anche in tale reparto, i sanitari non avevano attuato alcun valido iter diagnostico-terapeutico atto a scongiurare l'exitus dello stesso. Pertanto, l'inadeguata prestazione resa aveva compromesso le chances di salvezza e guarigione, determinandone il decesso.
I familiari chiedevano quindi la condanna della casa di cura al risarcimento di tutti i danni derivati dalla perdita del congiunto.
I Consulenti Tecnici d’Ufficio, dopo aver correttamente ricostruito l'iter diagnostico e terapeutico del paziente, all'epoca di 57 anni, etilista e forte fumatore (80 sigarette al giorno) ed affetto da carcinoma dello stomaco, hanno ritenuto che l'iter diagnostico seguito fu logico e che il paziente fu operato in modo corretto ed "ebbe a subire uno shock molto probabilmente da attribuire a complicanze cardiache (infarto); tale evento (infarto) non fu adeguatamente riconosciuto né trattato, anzi il paziente non fu gestito in nessun modo tanto che nulla fu fatto per fronteggiare l'evento, comprenderlo, delimitarlo. L'evento infarto era prevedibile e soprattutto, nel caso di specie, prevenibile mediante un accurato studio preoperatorio del paziente, studio che doveva essere effettuato in quanto il primo ECG era patologico".
Nella valutazione dell'operato dei sanitari e del personale della struttura che ebbero in cura il paziente, i consulenti hanno ritenuto che essi “nello svolgimento della propria attività professionale, ebbero ad agire con imprudenza imperizia e/o negligenza (in particolare nell'effettuazione dei controlli, delle analisi e dell'assistenza post intervento), e, ebbero ad omettere -soprattutto nella fase post operatoria- la tempestiva diagnosi di una patologia cardiaca importante. I sanitari non sospettarono mai alcuna cardiopatia ischemica nonostante il primo tracciato ECG fosse patologico; non sottoposero il paziente a consulenza cardiologica pre intervento. Ebbero ad omettere la corretta gestione della insorta complicanza (evento infarto) e la pronta attivazione delle terapie e/o degli interventi necessari secondo la prassi ed il codice di deontologia medica e in ogni caso suggeriti dalle linee guida nazionali e internazionali in relazione alle circostanze del caso, in particolare, in presenza della sintomatologia manifestata dal paziente, dopo l'intervento chirurgico, nella notte dal 01.08.2013 al 2.8.2013 fino l'exitus. Essi non effettuarono nessuna indagine mirata a comprendere la natura e la causa dello shock. Infatti -anche se sospettarono una causa emorragica (vedi terapia effettuata) - il paziente non fu sottoposto subito e tempestivamente ad un emocromo e ad una TAC”.
I consulenti hanno poi evidenziato che “a parte i segni e sintomi premonitori, il paziente alle 04:00 del 2 agosto 2013 ebbe una sudorazione algida che non fu adeguatamente e prontamente studiata”.
Hanno, quindi, concluso affermando che: “la causa del decesso - ragionando con il criterio del più probabile che non, è stata l'infarto del miocardio” sostenendo che “se il paziente fosse stato adeguatamente studiato prima dell'intervento chirurgico molto più probabilmente che non, l'evento infarto non si sarebbe verificato”.
Inoltre, “se l'evento infarto, una volta sopraggiunto (come in effetti avvenne), fosse stato adeguatamente trattato, il paziente -con elevata probabilità- avrebbe superato la crisi e non sarebbe deceduto”.
I periti aggiungono che, in assenza di adeguata strumentazione e competenza tecnica, i sanitari avrebbero potuto trasferire il paziente in un centro attrezzato (AA.OO. Cardarelli o Monaldi) ed in quella sede il paziente poteva essere adeguatamente trattato secondo le linee guida ( coronarografia e/o angiplastica).
In altre parole, anche un comportamento alternativo avrebbe evitato il decesso.
Stante l'accertato inadempimento della struttura sanitaria e il collegamento causale dell'exitus alla negligente condotta dei sanitari, come evidenziato dai consulenti di ufficio, il Tribunale di Napoli riconosce agli attori il diritto al risarcimento dei danni.
Il danno riconosciuto è quello per la perdita anticipata del rapporto parentale.
Infatti l'interesse fatto valere è quello alla intangibilità della sfera degli affetti e della reciproca solidarietà nell'ambito della famiglia e alla inviolabilità della libera e piena esplicazione delle attività realizzatrici della persona umana nell'ambito di quella peculiare formazione sociale costituita dalla famiglia, la cui tutela è ricollegabile agli artt. 2, 29 e 30 della Costituzione.
Attenendo il pregiudizio (non biologico) ad un bene immateriale, il ricorso alla prova presuntiva (che si pone su di un piano diverso dal danno in re ipsa) assume particolare rilievo, e può costituire anche l'unica fonte per la formazione del convincimento del giudice, non trattandosi di mezzo di prova di rango inferiore agli altri.
Infatti la perdita del rapporto parentale dà luogo ad un danno non patrimoniale presunto, consistente allorché colpisce soggetti legati da uno stretto vincolo di parentela la cui estinzione lede il diritto all'intangibilità della sfera degli affetti reciproci e della scambievole solidarietà che caratterizza la vita familiare nucleare.
Nella liquidazione del danno non patrimoniale da perdita del rapporto parentale, il Tribunale di Napoli fa riferimento ai valori indicati nelle tabelle elaborate dal Tribunale di Milano nell'anno 2022, che consentono una uniformità di trattamento di casi analoghi e realizzano una quantificazione già all'attualità.
L'Osservatorio sulla Giustizia civile di Milano ha ritenuto di aggiornare nel 2022 i criteri orientativi già elaborati per la liquidazione del danno non patrimoniale derivante dalla perdita di rapporto parentale a seguito dell'orientamento recentemente espresso dalla sentenza della Corte di Cassazione n. 10579/2021, secondo la cui massima: “in tema di liquidazione equitativa del danno non patrimoniale, al fine di garantire non solo un'adeguata valutazione delle circostanze del caso concreto, ma anche l'uniformità di giudizio in casi analoghi, il danno da perdita del rapporto parentale deve essere liquidato seguendo una tabella basata sul "sistema a punti", che preveda, oltre all'adozione del criterio a punto, l'estrazione del valore medio del punto dai precedenti, la modularità e l'elencazione delle circostanze di fatto rilevanti, tra le quali, indefettibilmente, l'età della vittima, l'età del superstite, il grado di parentela e la convivenza, nonché l'indicazione dei relativi punteggi, con la possibilità di applicare sull'importo finale dei correttivi in ragione della particolarità della situazione, salvo che l'eccezionalità del caso non imponga, fornendone adeguata motivazione, una liquidazione del danno senza fare ricorso a tale tabella.”
Tenuto conto delle tabelle milanesi, il Tribunale di Napoli riconosce a favore della vedova la somma complessiva di €. 205.265,00, in favore della figlia non convivente la somma complessiva di €. 164.885,00, in favore del figlio non convivente la somma complessiva di €. 171.615,00 e in favore di altra figlia convivente la somma complessiva di €. 232.185,00.
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2 Comments
Purtroppo ho avuto brutte esperienze con i medici. Complimenti per il lavoro che fate!
Grazie per i complimenti Antonella Maria. Cerchiamo di fare il massimo per tutelare vittime di malasanità da circa 20 anni, con passione e serietà.