La Corte di Cassazione Civile, Sezione Terza, con la sentenza numero 21119 del 22 luglio 2021, ribadisce il principio per cui, in ambito civile, il medico è responsabile se risulta “più probabile che non” che la sua condotta abbia lesionato o portato al decesso il paziente.
Il caso deciso dalla Corte di Cassazione riguardava la morte di un paziente al quale non era stata diagnosticata una reazione avversa ai farmaci.
Le reazioni avverse ai farmaci (RAF)
L’Organizzazione mondiale della sanità definisce RAF ogni risposta indesiderata che fa seguito alla somministrazione di un farmaco per motivi profilattici, diagnostici, terapeutici o per indurre modificazioni di una funzione fisiologica.
Quini si tratta di tutte le conseguenze non terapeutiche di un farmaco, a eccezione dei fallimenti terapeutici, degli avvelenamenti intenzionali o accidentali, degli errori di somministrazione e dell’abuso.
Le RAF si distinguono in prevedibili (correlate all’azione farmacologica e che si verificano in soggetti normali) e non prevedibili (non correlate all’azione farmacologica, ma in rapporto con la risposta individuale di soggetti predisposti).
Lo shock anafilattico rientra tra le reazioni immediate di ipersensibilità ai farmaci, che si manifestano entro un’ora dall’assunzione, ed è una tra le più temibili reazioni allergiche.
Con li termine shock anafilattico si intende una reazione anafilattica che ha comportato un grave coinvolgimento del sistema cardio-circolatorio, con brusca riduzione della pressione arteriosa (shock), ed le conseguenti manifestazioni. Lo shock anafilattico è un quadro clinico molto grave che necessita di un intervento di emergenza rapido ed appropriato. Il farmaco di prima scelta, in queste situazioni, è l’adrenalina.
I fatti di causa
I parenti dell’uomo citavano in giudizio davanti al Tribunale di Velletri medici e Asl per sentir dichiarare la responsabilità dei medesimi per imperizia e negligenza nell’erronea diagnosi ed erroneo trattamento del loro congiunto, arrivato con sindrome respiratoria al pronto soccorso e deceduto dopo alcune ore.
I congiunti rappresentavano che all’uomo, all’atto dell’ingresso in pronto soccorso, fu diagnosticata una scialoadenite da nnd (processo infiammatorio delle ghiandole salivari) e fu somministrata una dose di Bentelan e chiesto l’intervento di un otorino.
Dopodiché, a seguito di una grave crisi respiratoria, il paziente fu sottoposto a tracheotomia di emergenza che non riuscì a scongiurarne il decesso, avvenuto per edema della glottide colposamente non diagnosticato dal medico di pronto soccorso.
In primo grado il Tribunale dà torto ai familiari
Il Tribunale di Velletri, disposta Consulenza Tecnica d’Ufficio medico-legale e assunte prove testimoniali, disattese le conclusioni del CTU circa la sintomatologia respiratoria evidenziata dal paziente al momento dell’arrivo in pronto soccorso, rigettò la domanda ritenendo non esservi prova di errori diagnostici o terapeutici, con particolare riguardo all’assenza di ogni indicazione in cartella clinica circa l’avvenuta assunzione da parte del paziente, prima dell’arrivo al pronto soccorso, di un farmaco rivelatosi responsabile di uno shock anafilattico.
La Corte di Appello ribalta la sentenza
I familiari del paziente proposero appello insistendo in particolare sulla erronea valutazione da parte del Tribunale della CTU, e sulla erronea diagnosi ed erroneo trattamento posto in essere dalla struttura.
La Corte d’Appello di Roma ha accolto l’appello aderendo pienamente alle conclusioni della CTU in ordine alla acclarata responsabilità dei sanitari nel trattamento del paziente.
Infatti, ribadito che in materia di responsabilità civile vige la regola della preponderanza dell’evidenza e del “più probabile che non” – la Corte ha ritenuto sussistere elementi sufficienti di prova circa l’inadeguatezza della terapia somministrata al paziente, il quale, ove fosse stato correttamente monitorato, avrebbe potuto ricevere farmaci adrenalinici ed essere sottoposto ad intubazione.
Peraltro, rispetto alle evidenze della relazione peritale, il Tribunale avrebbe dovuto dare conto, con adeguata motivazione, delle ragioni del suo dissenso.
Quindi la Corte di Appello condanna medico e Asl al risarcimento di tutti i danni subiti dai familiari del congiunto.
La Cassazione conferma la condanna del medico e dell’Asl
Senza dilungarci sulla decisione della Corte di Cassazione, che ha confermato la condanna di medico a Asl, basta riportare il principio più volte stabilito dalla Corte nei giudizi di risarcimento danni da responsabilità medica come quello di cui trattasi.
Il principio è che nei giudizi di risarcimento del danno da responsabilità medica, è onere del paziente dimostrare l’esistenza del nesso causale, provando che la condotta del sanitario è stata, secondo il criterio del più probabile che non, causa del danno.
E’ importante distinguere il criterio di accertamento della responsabilità medica in ambito civile rispetto a quello penale.
Infatti, poste le ontologiche differenze tra processo penale e processo civile – il primo ispirato ad una logica sanzionatoria, il secondo imperniato su una logica compensativa/riparatoria – va da sé che anche il nesso di causalità in materia civilistica vada distinto da quello penalistico, nel senso che “nella causalità civilistica vige il principio del più probabile che non, mentre nel processo penale opera la regola della prova oltre il ragionevole dubbio”.
Pertanto l’accertamento del nesso eziologico nell’ambito della responsabilità civile va sì operato sulla base degli artt. 40 e 41 del codice penale, per cui un evento è da considerare causato da un altro se il primo non si sarebbe verificato in assenza del secondo, nonché dal criterio della cosiddetta causalità adeguata, sulla scorta del quale se un evento dannoso può dirsi causato da una pluralità di cause, occorre dare rilievo solo a quegli eventi che non appaiano del tutto inverosimili.
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