Con questo articolo commentiamo l’ordinanza del 12.02.2020 con cui la sezione ottava del Tribunale Civile di Napoli ha condannato una casa di cura a risarcire una paziente che ha perso l’udito da un orecchio a causa di errato intervento di stapedotomia.
Cause della sordità e trattamenti
Il senso dell’udito si sviluppa tramite l’orecchio, che è un organo pari costituito:
La sordità o ipoacusia è la patologia dell’orecchio che può essere:
La sordità può essere trattata con apparecchi acustici o tramite stapedotomia, che consiste in un intervento chirurgico che consiste nella sostituzione della sovrastruttura della staffa con una microprotesi articolata all’incudine.
I fatti
Una paziente ha dedotto di essersi ricoverata presso una casa di cura di Napoli per “Ipoacusia orecchio destro“.
Il giorno successivo al ricovero, tuttavia, veniva sottoposta, anziché all’intervento chirurgico concordato di “timpanotonia esplorativa orecchio destro“, ad un errato ed inadeguato intervento chirurgico di “mobilizzazione anchilosi stapedo-ovalare orecchio destro”.
Il giorno successivo all’intervento veniva dimessa con diagnosi di “otosclerosi destra”.
La ricorrente, in seguito a detto intervento chirurgico, perdeva completamente l’udito all’orecchio destro e lamentava dolore allo stesso orecchio e vertigini di lunga durata.
Si sottoponeva dopo tre anni ad intervento chirurgico riparatore presso un ospedale che, seppur eseguito a perfetta regola d’arte, non risolveva i problemi.
Pertanto, la paziente chiedeva il risarcimento di tutti i danni subiti
La casa di cura si costituiva in giudizio chiedendo il rigetto della domanda.
La consulenza medico legale disposta dal Tribunale
Come è prassi in questo tipo di cause, il Tribunale disponeva una perizia medico legale dando incarico a propri consulenti tecnici d’ufficio.
I consulenti del Tribunale osservavano quanto segue.
Dalla lettura della descrizione dell’intervento chirurgico effettuato e presso la casa di cura si evidenzia che tale procedura non è stata realizzata in maniera congrua, in quanto il chirurgo operatore, dopo aver eseguito la mobilizzazione stapedo ovalare, ha necessitato di apporre grasso autologo, per poi, riposizionare il lembo timpanomeatale senza portare a termine l’intervento chirurgico con l’inserimento di una protesi che avrebbe ripristinato la continuità ossiculare.
E’ altamente probabile, quindi, che nel praticare il foro si sia realizzata la frattura della platina della staffa, con la sua migrazione nella finestra e idrope immediata (effetto “geyser”, ossia uscita di liquido perilabirintico nella cassa).
Ciò non è stato segnalato dal chirurgo al momento della descrizione dell’intervento e pertanto resta una deduzione che tuttavia, risulta facilmente dimostrabile dal fatto che la paziente ha necessitato di un secondo intervento chirurgico di revisione, effettuato tre anni dopo presso una struttura ospedaliera pubblica, nel quale si è confermata la presenza di una frattura della crus posteriore della staffa con staffa dislocata rispetto alla finestra ovale e parzialmente disarticolata dall’incudine e soprattutto una fistola labirintica aperta, la cui patogenesi può essere unicamente ricondotta ad un danno iatrogeno intraoperatorio.
Di conseguenza si può affermare, secondo il principio del “più probabile che non” che la condotta dei sanitari della casa di cura sia connotata da profili di responsabilità in termini di imperizia, imprudenza e negligenza, dato che a causa di manipolazioni presumibilmente troppo energiche all’interno della cassa timpanica si determinò una frattura della crus posteriore della staffa con dislocazione dei frammenti ossiculari, una parziale disarticolazione della staffa dall’incudine ed una fistola labirintica.
In ragione di tale danno si è prodotta una lesione cocleare irreversibile con anacusia destra (perdita totale monolaterale destra dell’udito) e disfunzione del labirinto posteriore omolaterale.
Il nesso di causa in tema di responsabilità medica
Ricordiamo che nei riguardi della valutazione del nesso di causalità materiale in tema di responsabilità professionale, l’art. 2236 del codice civile stabilisce espressamente che “se la prestazione implica la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà, il prestatore d’opera non risponde dei danni, se non in caso di dolo o di colpa grave“.
Indubbiamente, si può escludere che l’intervento cui è stata sottoposta la paziente rientrasse nel caso previsto dal citato articolo.
Infatti, secondo i consulenti del Tribunale, tale intervento può essere considerato, “semplice da un punto di vista tecnico ed a carattere routinario”.
Ovviamente come ogni intervento non è scevro da complicanze immediate e tardive.
Compito del medico è attuare tutte le procedure adeguate ed idonee al fine di evitarne se l’insorgenza e/o porne rimedio.
Ne consegue, pertanto, che l’inadempimento del professionista alla propria obbligazione non può essere desunto, ipso facto, dall’insorgenza della complicanza, ma deve essere valutato alla stregua dei doveri inerenti lo svolgimento dell’attività professionale e, in particolare, il dovere della diligenza.
Ebbene, secondo i consulenti del Tribunale, è vero che, secondo la corrente letteratura, la chirurgia della staffa comporta anche nei Centri più qualificati un incidenza dell’1-2-% di insuccessi fino all’anacusia pur a fronte talora di tecniche corrette, tuttavia nel caso di specie non solo è facilmente dimostrabile un errore di natura tecnica durante l’atto chirurgico, ma per giunta non risulta, dal diario operatorio, che tale complicanza sia stata identificata e che si sia fatto il possibile per porne rimedio.
Il Tribunale ritiene di condividere integralmente i rilievi dei propri consulenti in quanto coerenti, esaustivamente argomentati e non oggetto di fondata critica.
Il Tribunale riconosce il risarcimento alla paziente
In ordine alle conseguenze dannose riportate dalla paziente, il Tribunale si riporta nuovamente alle considerazioni dei consulenti tecnici d’ufficio.
Questi ultimi hanno evidenziato che la paziente è affetta da anacusia destra (perdita totale monolaterale destra dell’udito) e da una disfunzione del labirinto posteriore omolaterale con sindrome vertiginosa periferica clinicamente compensata.
A tal proposito, prendendo come riferimento orientativo i più autorevoli ed accreditati barèmes in uso in Italia, in linea con la suddetta diagnosi risulta equa secondo i cc.tt.uu. una valutazione del 13% di danno biologico permanente.
Dalla suddetta valutazione, fatta propria dal Tribunale, in forza delle tabelle del Tribunale di Milano è stato riconosciuto alla donna un danno biologico di oltre 43mila euro, oltre al diritto di essere risarcita di danni patrimoniali quali le spese mediche, di consulenza e legali.
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