La Quarta Sezione Penale della Corte di Cassazione, con la sentenza numero 32240 del 20 aprile 2022, ha confermato la condanna di un medico che non ha diagnosticato al paziente un tumore osseo, tanto da causargli l’amputazione di una gamba e poi il decesso.
Vediamo come è stata accertata la responsabilità medica che da diritto al risarcimento dei danni.
La vicenda del malato oncologico
Nel mese di aprile del 2013 un uomo aveva cominciato ad accusare una sintomatologia dolorosa al ginocchio destro e il 3 maggio 2013 si era rivolto al Centro dove il radiologo, dopo una TC senza mezzo di contrasto e la risonanza magnetica, lo sottoponeva ad ulteriori accertamenti con referto di “frattura composta del piatto tibiale e grossolana formazione fusiforme” e richiesta di ripetizione dell’esame dopo venti giorni.
Recatosi lo stesso giorno da altro medico, che indicheremo in Dott. C, questi diagnosticava una “frattura composta dell’emipiatto tibiale interno ginocchio destro” con prognosi di giorni quaranta prescrivendo un tutore ed una terapia farmacologica.
A causa della persistenza della sintomatologia, recatosi il 26 maggio 2013 presso il Pronto Soccorso dell’Ospedale Cardarelli di Napoli, i sanitari chiedevano di ricoverarlo per ulteriori accertamenti avendo notato un’erosione dell’osso del ginocchio ma il paziente non prestava il consenso al ricovero e firmava le dimissioni.
Il 27 maggio 2013, nuovamente recatosi dal Dott. C. presso la struttura dove esercitava, questi, dopo il prelievo del liquido dalla massa presente nel ginocchio, diagnosticava un ematoma organizzato e prescriveva il ricovero per effettuare un intervento chirurgico al fine di rimuovere le tumefazioni. L’intervento veniva effettuato in data 28 maggio 2013 con asportazione di una massa sulla quale veniva disposto l’esame istologico ma anche successivamente il ginocchio continuava a gonfiarsi.
Il 13 giugno 2013, recatosi dal Dott. C. per la rimozione dei punti, il paziente veniva colto da malore e quindi sottoposto a valutazione da parte di un cardiologo che richiedeva il ricovero urgente presso il Pronto Soccorso del Policlinico Umberto I di Roma.
Le successive radiografie al torace effettuate presso il Policlinico evidenziavano numerosi noduli polmonari. Il paziente veniva quindi ricoverato presso il reparto di Oncoematologia.
All’esito di ulteriore valutazione anatomo-patologica veniva diagnosticato un “sarcoma polimorfo ad alto grado di malignità che in ordine ad alcuni aspetti morfologici e al quadro clinico-radiologico è verosimilmente del tipo osteosarcoma ad alto grado di malignità“.
Il 26 giugno 2013 a causa del peggioramento del quadro locale con interessamento sistemico, il paziente veniva sottoposto ad amputazione dell’arto inferiore destro a livello della coscia. Veniva dimesso in data 6 luglio 2013 in attesa di terapia oncologica.
Dopo il primo ciclo di chemioterapia si era già verificata una riduzione del 40% delle metastasi polmonari e veniva altresì impiantata una protesi, quindi in data 13 ottobre 2014 il paziente veniva portato al Pronto Soccorso ove veniva attestata una “dispnea in paziente con metastasi polmonari multiple da osteosarcoma e metastasi cerebrali” e il 30 ottobre 2014 interveniva il decesso del paziente.
Perchè il medico è ritenuto colpevole
Sulla scorta della corposa istruttoria dibattimentale che si compendiava nelle prove testimoniali e nelle dichiarazioni rese dai consulenti del Pubblico ministero nonché delle parti civili e della difesa ed in una perizia collegiale, il giudice di primo grado aveva ritenuto che la condotta colposa del Dott. C. dovesse essere collocata alla data del 28 maggio 2013 quando lo stesso, pur potendo basarsi sul referto degli esami al ginocchio, aveva eseguito l’intervento chirurgico connesso alla sepsi ed alla debilitazione del paziente da cui erano derivati l’amputazione della gamba nonché il decesso anticipato del paziente rispetto alla sopravvivenza pronosticabile in caso di somministrazione della chemioterapia secondo i dosaggi consigliati.
Il giudice di primo grado riconosceva la sussistenza di due catene causali scaturenti dalla medesima condotta colposa, ovvero l’imprudente esecuzione dell’intervento chirurgico del 28 maggio 2013, che per due vie autonome e parallele avrebbe determinato i due eventi, vale a dire l’amputazione dell’arto inferiore destro ed il decesso anticipato, integranti le due diverse fattispecie di reato ascritte all’odierno imputato.
Il giudice d’appello, richiamando le due catene causali individuabili nell’articolata vicenda storica ha ritenuto la sussistenza sotto il profilo oggettivo e soggettivo dei reati di cui agli omicidio colposo e lesioni personali colpose, ritenendo corretta la qualificazione operata dal giudice di primo grado e confermando la struttura motivazionale della sentenza di primo grado.
Il medico ricorre alla Corte di Cassazione
Per quello che qui interessa, il medico ricorre alla Corte di Cassazione contro la sentenza d’appello, con vari motivi tra cui quello secondo cui la Corte di Appello avrebbe erroneamente ritenuto che l’intervento eseguito da lui sia la causa che ha successivamente determinato, attraverso il progressivo aggravarsi della malattia, sia le lesioni (amputazione della gamba destra) sia la morte del paziente.
Infatti, secondo il medico, la Corte di Appello non avrebbe tenuto conto che l’intervento non può in alcun modo aver determinato la disseminazione delle metastasi per essere la malattia fin dall’origine metastatica ed altamente aggressiva e che l’intervento è stato eseguito solo dopo il placet dato dall’anestesista e dal radiologo il quale mancava di refertare la presenza di almeno due metastasi nei polmoni.
Il ricorrente assume quindi l’erroneità della sentenza impugnata laddove la Corte d’Appello, nel confermare la sua responsabilità in ordine ai reati di lesioni colpose ed omicidio colposo, così individuando due profili di colpa, non avrebbe valutato l’interferenza rispetto all’evento lesivo di fattori alternativi nonché la validità del coefficiente di probabilità espresso dalla legge statistica applicata nel caso concreto.
Il giudizio “contro fattuale”
Prima di riportare la decisione della Corte di Cassazione, che darà torto al medico, è opportuno riportare i criteri che devono essere esaminati nel caso di specie. Iniziamo dal giudizio contro fattuale.
E’ noto l’approdo della giurisprudenza assolutamente dominante, secondo cui è “causa” di un evento quell’antecedente senza il quale l’evento stesso non si sarebbe verificato: un comportamento umano è dunque causa di un evento solo se, senza di esso, l’evento non si sarebbe verificato (formula positiva); non lo è se, anche in mancanza di tale comportamento, l’evento si sarebbe verificato egualmente (formula negativa).
Da questo concetto nasce la nozione di giudizio controfattuale (“contro i fatti”), che è l’operazione intellettuale mediante la quale, pensando assente una determinata condizione (la condotta antigiuridica tenuta dell’imputato), ci si chiede se, nella situazione così mutata, si sarebbe verificata, oppure no, la medesima conseguenza: se dovesse giungersi a conclusioni positive, risulterebbe, infatti, evidente che la condotta dell’imputato non costituisce causa dell’evento.
Il giudizio contro fattuale costituisce, pertanto, il fondamento della teoria della causalità accolta dal nostro codice e cioè della teoria condizionalistica. Naturalmente esso, imponendo di accertare se la condotta doverosa omessa, qualora eseguita, avrebbe potuto evitare l’evento, richiede preliminarmente l’accertamento di ciò che è effettivamente accaduto e cioè la formulazione del c.d. giudizio esplicativo.
Per effettuare il giudizio contro fattuale e’, quindi, necessario ricostruire, con precisione, la sequenza fattuale che ha condotto all’evento, chiedendosi poi se, ipotizzando come realizzata la condotta dovuta dall’agente, l’evento lesivo sarebbe stato o meno evitato o posticipato.
In tema di responsabilità medica, è dunque indispensabile accertare il momento iniziale e la successiva evoluzione della malattia, in quanto solo in tal modo è possibile verificare se, ipotizzandosi come realizzata la condotta dovuta dal sanitario, l’evento lesivo sarebbe stato evitato o differito.
L’importanza della ricostruzione degli anelli determinanti della sequenza eziologica è stata sottolineata, in giurisprudenza, laddove si è affermato che, al fine di stabilire se sussista o meno il nesso di condizionamento tra la condotta del medico e l’evento lesivo, non si può prescindere dall’individuazione di tutti gli elementi rilevanti in ordine alla “causa” dell’evento stesso, giacché solo conoscendo in tutti i suoi aspetti fattuali e scientifici l’origine ed il decorso della malattia è possibile analizzare la condotta omissiva colposa addebitata al sanitario per effettuare il giudizio controfattuale, avvalendosi delle leggi scientifiche e/o delle massime di esperienza che si attaglino al case concreto.
Il principio dettato dalla Corte di Cassazione
Le Sezioni unite della Corte di Cassazione, con la nota sentenza “Franzese” n. 30328 del 10.07.2022, hanno enucleato, per quanto attiene alla responsabilità professionale del medico, relativamente al profilo eziologico, i seguenti principi di diritto.
Il nesso causale può essere ravvisato quando, alla stregua del giudizio contro fattuale, condotto sulla base di una generalizzata regola di esperienza o di una legge scientifica – universale o statistica -, si accerti che, ipotizzandosi come realizzata dal medico la condotta doverosa, l’evento non si sarebbe verificato, ovvero si sarebbe verificato ma in epoca significativamente posteriore o con minore intensità lesiva.
Non è però consentito dedurre automaticamente dal coefficiente di probabilità espresso dalla legge statistica la conferma, o meno, dell’ipotesi accusatoria sull’esistenza del nesso causale, poiché il giudice deve verificarne la validità nel caso concreto, sulla base delle circostanze del fatto e dell’evidenza disponibile, cosicché, all’esito del ragionamento probatorio, che abbia altresì escluso l’interferenza di fattori eziologici alternativi, risulti giustificata e processualmente certa la conclusione che la condotta omissiva del medico è stata condizione necessaria dell’evento lesivo con “alto grado di credibilità razionale“.
L’insufficienza, la contraddittorietà e l’incertezza del riscontro probatorio sulla ricostruzione del nesso causale, quindi il ragionevole dubbio, in base all’evidenza disponibile, sulla reale efficacia condizionante della condotta del medico rispetto ad altri fattori interagenti nella produzione dell’evento lesivo, comportano la neutralizzazione dell’ipotesi prospettata dall’accusa e l’esito assolutorio del giudizio.
Ne deriva che, nelle ipotesi di omicidio o lesioni colpose in campo medico, il ragionamento contro fattuale deve essere svolto dal giudice in riferimento alla specifica attività (diagnostica, terapeutica, di vigilanza e salvaguardia dei parametri vitali del paziente o altro) che era specificamente richiesta al sanitario e che si assume idonea, se realizzata, a scongiurare o ritardare l’evento lesivo, come in concreto verificatosi, con alto grado di credibilità razionale.
Sussiste, pertanto, il nesso di causalità tra l’omessa adozione, da parte del medico, di misure atte a rallentare o bloccare il decorso della patologia e il decesso del paziente, allorché risulti accertato, secondo il principio di controfattualità, condotto sulla base di una generalizzata regola di esperienza o di una legge scientifica, universale o statistica, che la condotta doverosa avrebbe inciso positivamente sulla sopravvivenza del paziente, nel senso che l’evento non si sarebbe verificato ovvero si sarebbe verificato in epoca posteriore o con modalità migliorative, anche sotto il profilo dell’intensità della sintomatologia dolorosa. E lo stesso ragionamento per l’evento solo produttivo di lesioni.
La Corte di Cassazione dà torto al medico
Enucleati i principi disciplinanti la materia della responsabilità medica, la Corte di Cassazione ritiene che il giudice d’appello ne abbia fatto buon governo nel dipanare la complessa vicenda storica e giuridica di cui trattasi.
Giova premettere che la patologia di cui si dibatte è un osteosarcoma, ovvero un tumore ad elevata malignità, del tipo maligno primitivo più frequente dell’apparato scheletrico, che si presenta al 90% nelle ossa lunghe, con sintomi individuabili quali più frequenti nel dolore e nella tumefazione.
I profili di colpa individuati a carico dell’odierno imputato, medico ortopedico, consistono “in primis” nell’omesso dubbio diagnostico a fronte di un paziente che lamentava dolore al ginocchio e soprattutto nella decisione di sottoporre il paziente ad intervento chirurgico di asportazione del supposto ematoma al ginocchio.
Sul punto la Corte di Appello evidenziava che “..in base ad una fondamentale regola di prudenza, gli elementi di sospetto e le chiare richieste di approfondimento contenute nel referto radiologico del 27 maggio ai quali si aggiungevano altri dati, quali l’età del paziente corrispondente al picco di incidenza statistica degli osteosarcomi nonché la tumefazione e dolore in assenza di traumi ad alta energia.. dovevano certamente allarmare il Dott. C. ed indurlo a porre in dubbio la diagnosi formulata“.
Peraltro, il Dott. C., una volta iniziato l’intervento (e qui sta il secondo profilo di colpa individuato dalla Corte di Appello) “lo ha proseguito nonostante l’anomalo aspetto della massa osservabile rispetto alla diagnosi di ematoma inizialmente formulata“.
Sul punto la sentenza d’appello riporta il parere dei periti secondo cui “a questo punto si doveva evitare una biopsia escissionale proprio per scongiurare il rischio di disseminazione metastatica, intervento che peraltro non è contemplato nelle linee G. in presenza di sospetto osteosarcoma“.
Ciò detto la sentenza impugnata, richiamando le due catene causali individuabili nella vicenda clinica del paziente, ha ritenuto che la condotta del dott. C., concretatasi nella esecuzione dell’intervento del 28.5.2013, è stata determinante sia nella causazicne dell’aggravamento della patologia oncologica e del ritardato intervento chemioterapico nonché dello stato di debilitazione del paziente, sia delle complicanze post- operatorie che hanno reso necessaria la drammatica scelta dell’amputazione dell’arto inferiore destro.
La Corte di Appello ha basato il suo giudizio controfattuale essenzialmente su dati statistici relativi alla malattia, dando rilievo non alla sola circostanza che oltre il 20% dei pazienti affetti da osteosarcoma in fase metastatica sopravvive per cinque anni alla diagnosi.
Il concetto di probabilità logica, infatti, impone di tenere conto di tutte le caratteristiche del caso concreto, integrando il criterio della frequenza statistica con tutti gli elementi indiziari astrattamente idonei a modificarla. Consegue che se la probabilità statistica viene integrata da tutti gli elementi probatori forniti dall’indagine processuale, è possibile pervenire ad una valutazione connotata da un elevato grado di credibilità razionale, non più espresso in termini meramente percentualistici.
Nella specie, pur essendo visibili all’esame radiologico delle cellule tumorali ai polmoni già all’epoca della prima visita, è stato così ritenuto verosimile che proprio l’inadeguata procedura di escissione chirurgica effettuata e le manovre eseguite possa aver messo in circolazione cellule tumorali.
Si deve aggiungere che nel caso in disamina, caratterizzato dall’insorgenza di una grave patologia tumorale che, a detta dei periti, avrebbe comunque determinato la morte del paziente, assume importanza fondamentale stabilire, sulla base delle circostanze di fatto e dell’evidenza disponibile, se, ipotizzandosi come realizzata dal medico la condotta doverosa (consistente nella esecuzione dell’indagine istologica della neoplasia in atto), ed escludendo fattori causali alternativi, l’evento morte si sarebbe – o meno – verificato in epoca significativamente posteriore rispetto a quanto accaduto.
Si deve, infatti, qui riaffermare il valore assoluto costituito dal prolungamento della vita del paziente, avuto riguardo alla responsabilità del medico il quale colposamente non si attivi e contribuisca con il proprio errore diagnostico a che il paziente venga a conoscenza di una malattia tumorale, anche a fronte di una prospettazione della morte ritenuta inevitabile, laddove, nel giudizio contro fattuale, vi sia l’alta probabilità logica che il ricorso ad altri rimedi terapeutici avrebbe determinato un allungamento della vita, che è un bene giuridicamente rilevante anche se temporalmente non molto esteso.
La giurisprudenza di legittimità, infatti, è pacificamente orientata nel senso della sussistenza del nesso di causalità rispetto all’evento, da individuarsi non soltanto nella morte del paziente, ma anche nell’accelerazione di tale “exitus“, costituente sostanziale sottrazione alla persona offesa di un periodo apprezzabile della propria vita.
Il caso dedotto in giudizio richiama altresì precedenti condivisibili opzioni in materia di patologie tumorali, riguardo alla sussistenza del nesso di causalità rispetto all’evento, da individuarsi non nella morte del paziente, ma nell’accelerazione di tale “exitus“, e quindi della sottrazione allo stesso di un prolungamento, comunque della propria vita (Sez. 4, n. 50975 del 19/07/2017, Memeo, Rv. 271533).
In questa prospettiva, è stato riconosciuto il nesso di causalità tra l’omessa adozione da parte del medico specialistico di idonee misure atte a rallentare il decorso della patologia acuta, colposamente non diagnosticata, ed il decesso del paziente, quando risulta accertato che la condotta doverosa avrebbe inciso positivamente sulla sopravvivenza del paziente, nel senso che l’evento non si sarebbe verificato ovvero si sarebbe verificato in epoca posteriore o con minore intensità lesiva (Sez. 4, n. 18573 del 14/02/2013, P.C. in proc. Meloni, Rv. 25633801; in senso analogo cfr. Sez. 4, n. 9170 del 14/02/2013, R.C., Maltese e altro, Rv. 25539701).
Nella vicenda di che trattasi, gli elementi valorizzati in sede di merito autorizzano logicamente a ritenere che un diverso comportamento del sanitario avrebbe portato ad una diversa e più favorevole situazione per il paziente, pur in presenza di una patologia ragionevolmente mortale.
La Corte di Cassazione, quindi, conferma la condanna del medico.
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2 Comments
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