Lo spunto per questo articolo viene dalla sentenza n. 26118 depositata in data 27.092021 dalla Corte di Cassazione Civile Sezione Terza, con cui si è affrontato un caso di malasanità e si è trattato del risarcimento per rischio latente.
Il caso trattato dai giudici
I familiari di un bambino, e quest’ultimo rappresentato dai genitori, si si sono rivolti ai giudici deducendo che, nelle ore immediatamente precedenti il parto, il bambino subì una grave “asfissia ipossico-ischemica”, che lo aveva reso permanentemente e totalmente invalido.
Ritenendo che la suddetta ipossia andava ascritta a responsabilità dei sanitari dell’ospedale in cui era nato, i quali dapprima non si avvidero dell’esistenza dei sintomi predittivi d’una sofferenza fetale, e poi non eseguirono tempestivamente un parto cesareo, chiesero il risarcimento dei danni all’ospedale.
Ciò che rileva per questo articolo, è che la causa è giunta fino alla Corte di Cassazione per varie questioni, tra cui quella sollevata dall’assicurazione chiamata in causa dall’ospedale.
Tra i vari motivi di ricorso proposti dall’assicurazione, infatti, vi è quello relativo al risarcimento dei danni per c. d. rischio latente.
Il rischio latente
Il danno alla salute, secondo la giurisprudenza della Corte di Cassazione, può consistere:
– nella temporanea compromissione dell’integrità psicofisica;
– nella permanente compromissione dell’integrità psicofisica;
– nell’aumentato rischio di contrarre malattie in futuro;
– nell’aumentato rischio di morte ante tempus.
Le indicazioni che precedono ci vengono dalla medicina legale, per la quale tra i “postumi permanenti” causati da una lesione della salute rientra anche il maggior rischio di una ingravescenza futura.
Così e’, ad esempio, per le gravi fratture, le quali espongono la vittima al rischio di fenomeni artrosici precoci; così è pure per le infezioni da HCV od HIV, che espongono il paziente al maggior rischio – rispettivamente – di cirrosi epatica o di polmoniti e tubercolosi, al termine della fase di latenza clinica.
Si tratta del c.d. rischio latente, che consiste nella possibilità, oggettiva e non ipotetica, che l’infermità residuata all’infortunio possa improvvisamente degenerare in un futuro tanto prossimo quanto remoto, e differisce dal mero peggioramento dipendente dalla naturale evoluzione dell’infermità.
Il peggioramento è la naturale evoluzione fisiologica dei postumi; il rischio latente è invece la possibilità che i postumi provochino a loro volta un nuovo e diverso danno, che può consistere tanto in una ulteriore invalidità, quanto nella morte.
Dunque il patire postumi che, per quanto stabilizzati, espongano per la loro gravità la vittima ad un maggior rischio di ingravescenza o morte ante tempus costituisce per la vittima una lesione della salute, in quanto tale risarcibile.
La categoria del rischio latente è stata riconosciuta inizialmente nell’ambito dell’infortunistica da lavoro, tanto che già nel 1986 i giudici lo definivano così: “il rischio latente è costituito dall’esistenza di un’infermità suscettibile di improvviso e rapido peggioramento anche in un prossimo futuro, e differisce dal peggioramento potenziale e futuro dipendente dalla naturale evoluzione dell’infermità” (Cassazione civile, sez. lav., 02.04.1986, n. 2260).
Poi, fortunatamente, la categoria di danno di cui stiamo parlando si è estesa anche a casi di malasanità per responsabilità medica.
La quantificazione del danno latente
Se il rischio di contrarre malattie in futuro o di morire ante tempus, a causa dell’avverarsi del rischio latente, costituisce un danno alla salute, di esso si deve tenere conto nella determinazione del grado percentuale di invalidità permanente, secondo le indicazioni della medicina legale.
Se dunque il grado di invalidità permanente suggerito dal medico-legale, e condiviso dal giudice, venga determinato tenendo conto del suddetto rischio, insito nei postumi a causa della loro natura o gravità, la liquidazione del danno biologico dovrà avvenire tenendo conto della (minore) speranza di vita in concreto, e non di quella media.
Se così non fosse, il medesimo danno sarebbe liquidato due volte: dapprima attraverso l’incremento del grado di percentuale di invalidità permanente; e poi tenendo conto della speranza di vita media, invece che della speranza di vita concreta.
Può accadere tuttavia che il rischio latente non sia stato tenuto in conto del grado percentuale di invalidità permanente: vuoi perché non contemplato dal barème utilizzato nel caso concreto, vuoi per maltalento del medico-legale.
In tal caso del pregiudizio in esame dovrà tener conto il giudice, maggiorando la liquidazione in via equitativa: e nell’ambito di questa liquidazione equitativa non gli sarà certo vietato scegliere il valore monetario del punto di invalidità previsto per una persona della medesima età della vittima: e dunque in base alla vita media nazionale, invece che alla speranza di vita del caso concreto. A mero titolo di esempio, ciò sarà possibile nei casi più gravi, e cioè quando massimo è il divario tra la vita attesa secondo le statistiche mortuarie, e la concreta speranza di vita residuata all’infortunio.
Quel che unicamente rileva, ai fini della legittimità della decisione, è che il giudice di merito dia conto dei criteri seguiti tanto nel determinare il grado di invalidità permanente, quanto nel monetizzarlo in via equitativa.
Nel caso del bambino per cui è stata introdotta la causa, i C. T. U. hanno riconosciuto una invalidità permanente del 91%, la cui quantificazione, secondo la Corte di Cassazione è corretta e condivisibile, purchè il giudice non ne incrementi la monetizzazione per personalizzazione senza prova di sussistenza di ulteriori pregiudizi rispetto alla dipendenza completa del bambino da altri soggetti ed alle ripercussioni notevoli sull’autonomia individuale e sul funzionamento socio-relazionale.
Riconosciuto anche il danno da incapacità lavorativa
Tra i motivi di ricorso per cassazione, vi è quello con cui l’assicurazione contesta la sentenza di appello nella parte in cui ha riconosciuto alla vittima la somma di circa 400mila euro a titolo di risarcimento del danno da perdita della capacità lavorativa generica.
L’assicurazione deduce che la capacità lavorativa generica sarebbe ricompresa nel danno biologico, e di conseguenza la corte d’appello avrebbe duplicato il risarcimento di quest’ultimo.
Ebbene, intanto vi è da precisare che per incapacità generica di lavorare si intende l’impossibilità per il danneggiato, in questo caso il bambino, di poter svolgere in futuro qualsivoglia lavoro.
Diverso è il caso della incapacità specifica lavorativa, che consiste nell’impossibilità per un soggetto di continuare a svolgere il lavoro svolto fino a che non ha subito una lesione.
Ebbene, la Corte di Cassazione rigetta il motivo dell’assicurazione, perché il risarcimento del danno per incapacità di svolgere qualsiasi lavoro da parte del bambino è una voce di danno patrimoniale, quindi diversa da quella non patrimoniale per danno alla salute.
Pertanto, essa ha lo scopo di risarcire il danno consistito nell’avere perduto ogni possibilità di svolgere un lavoro remunerativo e guadagnare del denaro: un danno, quindi, totalmente diverso dal pregiudizio alla salute.
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