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30/11/2022La Corte di Cassazione Penale, con la sentenza n. 45057 del 28 ottobre 2022, ha confermato la condanna di un medico che si era rifiutato di recarsi presso il domicilio di una paziente di età avanzata, impossibilitata a muoversi e con gravi difficoltà respiratorie.
- Il reato di rifiuto di atti d’ufficio da parte del medico
- Il medico è obbligato a visitare a domicilio i pazienti?
- I fatti di causa
- Il medico non ha dato prova della mancanza di urgenza
- Ascolta la versione audio dell’articolo
Il reato di rifiuto di atti d’ufficio da parte del medico
L’ipotesi di reato che è stata contestata al medico è quella di omissione di atti d’ufficio, prevista e punita dall’art. 328 comma 1 del codice penale che recita così:
Comma 1: Il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio, che indebitamente rifiuta un atto del suo ufficio che, per ragioni di giustizia o di sicurezza pubblica, o di ordine pubblico o di igiene e sanità, deve essere compiuto senza ritardo, è punito con la reclusione da sei mesi a due anni.
Comma 2: Fuori dei casi previsti dal primo comma il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio, che entro trenta giorni dalla richiesta di chi vi abbia interesse non compie l’atto del suo ufficio e non risponde per esporre le ragioni del ritardo, è punito con la reclusione fino ad un anno o con la multa fino a 1.032 euro. Tale richiesta deve essere redatta in forma scritta ed il termine di trenta giorni decorre dalla ricezione della richiesta stessa.
Il caso è appunto quello del medico, che è un pubblico ufficiale, che si rifiuta e omette di svolgere l’incarico di assistenza sanitaria per cui è preposto.
Il rifiuto può essere espresso o tacito e può intervenire sia a seguito di una richiesta che di un ordine.
Rileva penalmente soltanto il rifiuto dell’atto che avviene indebitamente, dovendo l’agente agire con la consapevolezza del proprio contegno omissivo e dovendo egli rappresentarsi e volere la realizzazione di un evento contrario alla legge.
Il medico è obbligato a visitare a domicilio i pazienti?
In base alla normativa regolamentare e agli accordi collettivi, non sussiste un obbligo di visita domiciliare, essendo la relativa decisione rimessa alla discrezionalità del medico, che la esercita in base alla valutazione del caso concreto.
Vero è che l’art. 13 comma 3 dell’Accordo Collettivo Nazionale per la regolamentazione dei rapporti con i medici addetti al servizio di guardia medica ed emergenziale territoriale, reso esecutivo con D. P. R. n. 41 del 25 gennaio 1941, postula un apparente automatismo laddove stabilisce che il medico di continuità assistenziale “è tenuto ad effettuare al più presto tutti gli interventi che siano chiesti direttamente dall’utente, entro la fine del turno al quale è preposto”.
Tuttavia, altre fonti normative, rilevanti nel caso trattato dalla sentenza che stiamo commentando, puntualizzano che, come d’altronde logico, il medico “deve valutare sotto la propria responsabilità, l’opportunità di fornire un consiglio telefonico, recarsi al domicilio per una visita, invitare l’assistito in ambulatorio” (così, ad esempio, il Manuale per il medico di continuità assistenziale approvato dal Comitato permanente aziendale della Azienda Sanitaria Valle d’Aosta).
I fatti di causa
La Corte di Appello di Torino, seppur riducendo la pena al medico, confermava la condanna di quest’ultimo per omissione di atti di ufficio, per essersi rifiutato di recarsi presso il domicilio di una anziana con gravi difficoltà respiratorie impossibilitata a muoversi.
Il figlio della anziana donna aveva chiamato il 118, ma il medico a cui la centralinista aveva trasmesso la chiamata non si era recato a casa della donna per visitarla.
Egli aveva tre opzioni da scegliere in base al suo apprezzamento della situazione concreta.
La prima era quella di invitare la paziente a recarsi presso l’ambulatorio per una visita, ma tale opzione è da ritenersi esclusa nel caso di cui trattasi per l’età e le condizioni di salute della signora.
La seconda era quella di un consulto telefonico, ma è risultato che il medico non si sia prestato nemmeno a ciò, essendo provato che il medico si limitò a consigliare al figlio della anziana di rivolgersi il giorno dopo al medico di base o di chiedere l’intervento di una ambulanza se la situazione fosse peggiorata.
Ma, ci dice la Corte di Cassazione, “una valutazione del caso concreto da parte del medico non può prescindere dalla conoscenza del quadro clinico del paziente, acquisita attraverso la richiesta di indicazioni precise circa l’entità della patologia dichiarata”, richiesta che, nel caso di specie, non risulta essere stata formulata dall’imputato.
L’unica opzione residua e giusta era dunque la visita domiciliare, in relazione alla cui mancata esecuzione l’imputato non ha addotto, né tantomeno documentato, alcun impedimento durante le due fasi del giudizio di merito.
Il medico non ha dato prova della mancanza di urgenza
Il medico ricorreva alla Corte di Cassazione deducendo che, nel caso di specie, mancava il requisito dell’urgenza insito nella necessità, secondo il dettato dell’art. 328 del codice penale, che l’atto vada “compiuto senza ritardo”.
Premesso che, sul punto, la giurisprudenza di legittimità riconosce pacificamente la connotazione discrezionale della valutazione del medico, riservando tuttavia al giudice il potere di sindacarla quando emergano elementi che evidenzino l’evidente erroneità di quest’ultima, la Corte di Cassazione rileva che nel giudizio in esame tale potere è stato esercitato dal giudice dell’appello, laddove scriveva che “è evidente che, nel caso di specie, il quadro clinico descritto dall’utente avrebbe imposto di recarsi immediatamente al domicilio della malata, affetta da difficoltà respiratorie in un contesto di età avanzata e fratture alle costole”.
Il medico ricorrente reputa tale motivazione apparente e contraddittoria, posto che la valutazione dell’imputato, che aveva evidentemente escluso l’urgenza della visita, era risultata poi corretta, essendo stata validata dal collega del medico che, l’esito della visita, aveva confermato il “codice bianco” assegnato dalla centralinista la quale diramava le telefonate in entrata al 118.
Secondo la Corte di Cassazione, tuttavia, tale notazione tralascia però di considerare come su questo aspetto il giudice di appello abbia fornito una risposta puntuale, con motivazione completa ed esente da vizi di illogicità.
Nella sentenza di appello si trova infatti replicato che, “intanto il suddetto codice bianco era stato confermato in quanto il secondo medico, che si era recato a seguito della inerzia dell’imputato a casa della donna, diagnosticando le una bronchite, aveva prescritto idonea terapia”.
Dunque, premesso che l’omissione di atti d’ufficio ha natura di reato di pericolo, sulla base della ricostruzione del fatto operata dai giudici di merito, “tale pericolo sussisteva al momento della realizzazione della condotta omissiva, a nulla rilevando la sua successiva neutralizzazione ad opera di un terzo”.
Per la stessa ragione, manifestamente infondata risulta altresì la deduzione formulata nel secondo motivo di ricorso, tesa a negare la sussistenza del dolo, poiché l’imputato non si sarebbe rappresentato la necessità di compiere l’atto senza ritardo, non avendo egli ritenuto urgente la condizione clinica della donna.
Infatti, in base alla ricostruzione operata dai giudici di merito, “l’indifferibilità dell’atto d’ufficio era ragionevolmente ipotizzabile al momento della telefonata, alla luce delle circostanze di fatto” (quali le condizioni e l’età della donna, nonché la tipologia di sintomi riferita dal figlio), con la conseguenza che il soggetto agente non poteva che essersela rappresentata.
Né, come ovvio, può incidere sull’elemento soggettivo, elidendo dolo, la circostanza che il pericolo fosse venuto meno per effetto del successivo intervento, in chiave terapeutica, del secondo medico di continuità assistenziale.
Il ricorso del medico viene quindi dichiarato inammissibile e la sua condanna diviene definitiva.
Ascolta la versione audio dell’articolo
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