I medici non diagnosticano tempestivamente la leucemia a una paziente, che quindi lo scopre in ritardo e senza aver avuto tempo, nè per decidere se e come curarsi, né per decidere come e con chi passare gli ultimi mesi della propria vita.
Con la sentenza che commentiamo (Cassazione civile sez. III, 12.10.2021, n. 27682) i giudici riconoscono il risarcimento dei danni per lesione del diritto all’autodeterminazione della paziente e dei suoi familiari.
Cos’è la leucemia?
La leucemia è un tumore del sangue che deriva dalla proliferazione incontrollata di cellule immature (c. d. staminali), prodotte dal midollo osseo, che interferiscono con la normale crescita e sviluppo delle cellule del sangue.
Quando ciò avviene, le cellule immature possono invadere il midollo e il sangue, e talvolta anche i linfonodi, la milza e il fegato.
A seconda della velocità di progressione della malattia si parla di leucemia acuta o cronica.
Secondo AIRC, le leucemie acute, in particolare, rappresentano oltre il 25 per cento di tutti i tumori dei bambini, collocandosi quindi al primo posto tra le neoplasie pediatriche più frequenti. Le leucemie croniche sono invece tipiche dell’età adulta mentre sono rare in età pediatrica.
Il caso: omessa diagnosi di leucemia
I familiari di una donna convenivano davanti al Tribunale di Roma medici e ospedali che avevano avuto in cura la loro congiunta, al fine di sentir accertare la loro responsabilità in solido per omessa diagnosi di una leucemia linfatica cronica e per aver omesso adeguate cure, con conseguente condanna degli stessi medici, solidalmente alle strutture convenute, al risarcimento di tutti i danni subiti in conseguenza del decesso della congiunta.
A fondamento della domanda i familiari dedussero che la donna, lamentando prurito intenso, flogosi delle vie aeree e spossatezza, si era fatta visitare dai medici e ricoverare nelle strutture convenute, senza che le venisse diagnosticata alcuna malattia quale la leucemia, come poi scoperto a seguito di biopsia e esame istologico.
La paziente dopo la diagnosi decideva di curarsi negli Stati Uniti, dove le veniva riscontrata una diffusa linfoadenopatia dell’addome, al collo, ad entrambe le ascelle e un linfoma metastatico al midollo, con uno stadio della malattia al quarto livello avanzato. Qui si sottoponeva a chemioterapia, ma, dopo aver raggiunto la remissione della malattia, la patologia si ripresentava e sopraggiungeva il decesso.
In primo e secondo grado viene negato il risarcimento
A seguito di espletamento di consulenza tecnica d’ufficio, il Tribunale di Roma rigettò la domanda attrice, rilevando che nella condotta dei vari medici non era riscontrabile alcuna negligenza poiché, considerato il tipo di malattia (linfoproliferativa), i medici convenuti che visitarono la paziente non avevano elementi sufficienti per una corretta diagnosi, tanto più perché la paziente decise poi di curarsi altrove.
Proposto appello da parte dei familiari, la Corte d’appello di Roma disponeva il rinnovo della ctu, nominando due specialisti, uno in medicina legale e l’altro in ematologia. Ma, espletata la ctu, la Corte di Appello confermava la sentenza di primo grado.
In particolare, la Corte di Appello, sulla scorta della ctu, pur riconoscendo che la condotta dei vari medici che ebbero in cura la paziente era stata censurabile sotto vari profili, ha ritenuto insussistente il nesso di causalità tra tale condotta e l’evoluzione della malattia.
Infatti, quanto ai medici che la visitarono per primi, la Corte di Appello ha osservato che, pur essendo stata corretta la diagnosi al momento della dimissione, i sanitari avrebbero dovuto indicare alla paziente di eseguire, a distanza di tre o quattro mesi, controlli ecografici dei linfonodi e, nel caso di persistenza dell’obiettività riscontrata, di consultare un ematologo.
Quanto alla condotta dei medici che visitarono la paziente in seguito, la Corte di Appello ha riportato l’osservazione dei ctu, secondo cui dagli esami ematologici eseguiti emergevano dati che avrebbero dovuto indurre il medico a disporre ulteriori indagini citogenetiche, le quali avrebbero potuto condurre alla diagnosi della leucemia. Tuttavia, la Corte ha ritenuto che tale considerazione debba essere letta tenendo conto che l’esame completo non era ancora stato eseguito per via del farmaco cortisonico che la paziente aveva assunto e che comunque i suddetti dati mostravano che la malattia era ad uno stadio tale per cui, secondo le linee guida internazionali, era consigliabile attendere l’evoluzione della stessa prima di impostare la terapia.
In ogni caso, rilevano i giudici di secondo grado che i ctu, facendo riferimento alla letteratura scientifica e alle linee guida, hanno affermato l’insussistenza del nesso causale in quanto, prima di scegliere la terapia, la paziente sarebbe dovuta rimanere in fase di osservazione e comunque il ritardo della diagnosi non aveva inciso sull’evoluzione della malattia, dal momento che la paziente, quando aveva ricevuto la corretta diagnosi, presentava una linfocitosi assoluta sovrapponibile quella riscontrata all’epoca del primo accesso in ospedale. Pertanto, non avrebbe trovato riscontro scientifico la tesi sostenuta dagli appellanti che una più tempestiva diagnosi da parte dei medici convenuti avrebbe potuto influire il decorso della malattia.
Infine, la Corte di merito ha respinto anche la domanda di risarcimento del danno per perdita di chance formulata dagli attori, considerato che i ctu avevano escluso, sulla base di argomentazioni scientifiche, che un ritardo di alcuni giorni potesse aver avuto incidenza sullo sviluppo della malattia e quindi sull’efficacia delle cure.
La Corte di Cassazione riconosce il diritto all’autodeterminazione
I familiari ricorrono alla Corte di Cassazione sostenendo, tra l’altro, che sarebbe mancata la risposta, da parte dei giudici di merito, alla richiesta di risarcimento dei danni subiti in proprio dalla paziente e iure successionis dai familiari a causa della lesione del diritto all’autodeterminazione della congiunta determinata dal colpevole ritardo diagnostico.
E la Corte di Cassazione accoglie il motivo di ricorso per i seguenti motivi.
Infatti, <<in tema di danno alla persona, conseguente a responsabilità medica, integra l’esistenza di un danno risarcibile alla persona l’omissione della diagnosi di un processo morboso terminale, in quanto essa nega al paziente, oltre che di essere messo nelle condizioni di scegliere “cosa fare”, nell’ambito di ciò che la scienza medica suggerisce per garantire la fruizione della salute residua fino all’esito infausto, anche di essere messo in condizione di programmare il suo essere persona e, quindi, in senso lato l’esplicazione delle sue attitudini psico-fisiche, in vista e fino a quell’esito>>.
La violazione del diritto di determinarsi liberamente nella scelta dei propri percorsi esistenziali, determinata dal colpevole ritardo diagnostico di una patologia ad esito certamente infausto, non coincide con la perdita di “chances” connesse allo svolgimento di specifiche scelte di vita non potute compiere, ma con la lesione di un bene di per sé autonomamente apprezzabile sul piano sostanziale, tale da non richiedere l’assolvimento di alcun ulteriore onere di allegazione argomentativa o probatoria, potendo giustificare una condanna al risarcimento del danno sulla base di una liquidazione equitativa (Cass. n. 7260/2018).
In caso di colpevole ritardo nella diagnosi di patologie ad esito infausto, l’area dei danni risarcibili non si esaurisce nel pregiudizio recato alla integrità fisica del paziente, né nella perdita di “chance” di guarigione, ma <<include la perdita di un “ventaglio” di opzioni con le quali scegliere come affrontare l’ultimo tratto del proprio percorso di vita, che determina la lesione di un bene reale, certo – sul piano sostanziale – ed effettivo, apprezzabile con immediatezza, qual è il diritto di determinarsi liberamente nella scelta dei propri percorsi esistenziali>>; in tale prospettiva, il diritto di autodeterminarsi riceve positivo riconoscimento e protezione non solo mediante il ricorso a trattamenti lenitivi degli effetti di patologie non più reversibili, ovvero, all’opposto, mediante la predeterminazione di un percorso che porti a contenerne la durata, ma anche attraverso la mera accettazione della propria condizione.
Accogliendo il suddetto motivo di ricorso, la Corte di Cassazione cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte d’Appello di Roma in diversa composizione.
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