Il Tribunale Civile di Ancona, con la sentenza numero 563 del 21 marzo 2019, ha affrontato un caso di malasanità in ambito post operatorio, da cui è derivata la perdita di vista da un occhio per la paziente.
Il Tribunale ha condannato i medici che, dopo l’intervento, non hanno adeguatamente monitorato la paziente.
Il fatto: dopo l’intervento la paziente deve essere adeguatamente assistita
Una donna cadeva nel bagno della sua abitazione, a causa di un malore, andando a sbattere la regione sinistra del viso contro lo spigolo del lavabo, tanto che, riavutasi, aveva notato un leggero gonfiore nella zona zigomale sinistra e, il mattino successivo, un ematoma nella regione orbitale sinistra e perdite di sangue dal naso.
La mattina seguente si era recata al Pronto Soccorso dell’Ospedale dove, all’esito degli accertamenti, era stato misurato un visus di 9-10/10 con lenti ed un quadro del fondo oculare senza alterazioni, senza ematomi retrobulbari o intraorbitari né alterazioni a carico del nervo ottico, e veniva formulata la seguente diagnosi: “trauma facciale con frattura “blow out” orbitaria sinistra con incarceramento del muscolo retto inferiore. Frattura della piramide nasale“.
Tuttavia, veniva consultato anche l’U.O di chirurgia maxillo-facciale dell’Ospedale e veniva contattato telefonicamente il medico che, non ravvisando ragioni di urgenza, fissava una visita specialistica che confermava la diagnosi già formulata, rappresentando la necessità di un intervento chirurgico di ricostruzione del pavimento orbitario sinistro, onde evitare danni estetici permanenti ed informava la paziente di rendersi disponibile nei giorni successivi.
Infatti, pochi giorni dopo, dopo aver sottoscritto il consenso informato, veniva sottoposta ad un intervento chirurgico di “riduzione della frattura orbitaria e nasale, nonché di riposizionamento del contenuto orbitario”.
Il giorno successivo, la paziente informava il primario di non vedere dall’occhio sinistro, ma tale segnalazione non veniva trascritta nel diario ospedaliero e veniva di fatto ignorata dal sanitario che la considerava una normale conseguenza del gonfiore post-intervento.
Solo dopo alcuni giorni, a distanza di 36 ore dall’intervento, il problema veniva trascritto in cartella e solo in tale momento il primario disponeva ulteriori approfondimenti da cui emergeva “un edema della papilla, con riflesso pupillare diretto assente e visus ridotto a conta dita“; la TAC orbitale inoltre evidenziava tutte le differenze rispetto al precedente esame.
La paziente veniva quindi dimessa con diagnosi di “neuropatia ottica post-traumatica OS”.
Successive valutazioni specialistiche escludevano, a parte lievi miglioramenti, la possibilità di una completa guarigione, tanto che diveniva affetta da totale cecità all’occhio sinistro a causa dell’atrofia completa del nervo ottico posteriormente all’intervento chirurgico.
La donna si rivolgeva dunque al Tribunale per richiedere il risarcimento di tutti i danni patrimoniali e non patrimoniali subiti per colpa medica.
La Consulenza Tecnica d’Ufficio
Il Tribunale ha disposto una CTU volta a individuare eventuali responsabilità dei medici e, ove accertate, a quantificare i danni subiti dalla paziente.
Ebbene, il Tribunale accoglie i risultati dalla CTU, sia con riferimento alla valutazione dell’operato dei sanitari convenuti, sia con riferimento all’entità delle conseguenze lamentate dall’attrice.
Precisamente, i CTU non hanno eccepito nulla in merito all’intervento di revisione del pavimento orbitario sinistro, che era assolutamente indicato e necessario in relazione ai postumi del trauma domestico riportato dall’attrice.
Il problema, se mai, è sorto per la “mancanza di un presidio terapeutico medico nell’immediatezza del riscontro del deficit visivo (circa 12 ore dopo l’intervento) che avrebbe dato qualche chance di recupero della funzione visiva e gli effetti della terapia sarebbero stati più efficaci se posti in essere entro le due ore dall’insorgenza del danno”.
Quanto all’eziopatogenesi, l’ipotesi più sostenibile è la sofferenza del nervo ottico su base ischemica conseguente a fenomeni angiospastici intraoperatori.
Sulla scorta di tali conclusioni, cui i consulenti sono pervenuti all’esito di argomentazioni logiche e coerenti da intendersi qui condivise e trascritte, ritiene il Tribunale che debba essere in primo luogo escluso che il danno sia stato determinato da imperizia nell’esecuzione dell’intervento chirurgico.
Nel diario clinico, infatti, non sono riportate complicanze introperatorie, né perioperatorie per cui deve ritenersi che la perdita della funzione visiva si sia verificata immediatamente dopo l’intervento ed in conseguenza di esso.
I C.T.U. evidenziano che non è provato l’errore chirurgico e che “il danno al nervo ottico è conseguenza di un meccanismo di tipo angiospastico dell’arteria retinica conseguente, da un lato, a reazioni vascolari di tipo vagale connesse alla compressione del bulbo oculare e, dall’altro, ad uno stato ipotensivo generale connesso allo stato di narcosi”.
Può altresì essere escluso un danno intraoperatorio diretto a carico del nervo ottico in ragione della tecnica chirurgica che prevede l’impiego di strumenti smussi, utilizzati in un distretto lontano dal decorso del nervo ottico a livello retrobulbare.
Sono invece determinanti, ai fini della causazione del danno, le omissioni che i C.T.U. collocano nella gestione della fase post-operatoria.
In merito, infatti, i C.T.U. evidenziano come si sia verificato un “colpevole ritardo nell’impostazione della terapia medica rispetto al momento del rilievo del deficit visivo che, pacificamente, deve collocarsi nel giorno successivo all’intervento quando fu la stessa paziente a rilevarlo ed a segnalarlo; la terapia è stata iniziata 36 ore dopo l’intervento, invece che 12 ore dopo di esso, momento di riscontro dell’assenza del visus; questo ritardo ha definitivamente compromesso le possibilità di recupero della funzione visiva, peraltro già minime anche dopo 12 ore dal danno”.
In sintesi, “vi è stato un ritardo di diagnosi della complicanza: se la diagnosi di papilla da stasi fosse stata effettuata il giorno dopo l’intervento con un normale controllo oculistico e la terapia fosse stata iniziata in prima giornata, la paziente avrebbe avuto maggiori chances, anche se non la certezza, di conservare una funzione visiva dell’occhio”.
Infatti, il giorno dopo l’intervento la paziente ha segnalato la perdita della vista all’occhio operato e solo il giorno dopo ancora è stata diagnosticata la papilla da stasi e la terapia steroidea è stata iniziata non in prima giornata, ma in seconda giornata; quindi, la visita di consulenza oculistica è stata richiesta solo 48 ore dopo l’intervento e 24 ore dopo il riscontro della perdita della funzione visiva.
È quindi evidente che si deve ritenere sussistente sia in capo al chirurgo che ha curato l’intervento che in capo al responsabile del reparto che ha ricevuto l’esplicita segnalazione della paziente, entrambi citati in causa, la “colpevole omissione di un costante monitoraggio degli esiti dell’intervento coerente con le possibili complicanze documentate dalla letteratura scientifica”.
I medici devono essere diligenti anche nelle fasi pre e post operatorie
Il Tribunale ribadisce un principio pacifico in giurisprudenza: “un intervento chirurgico e gli obblighi di diligenza ad esso connessi, non si esauriscono con la sua esecuzione, ma comprende sia la fase pre che quella post operatoria, trattandosi di momenti in cui possono insorgere complicanze di cui deve farsi carico, in primo luogo, il sanitario che ha curato l’intervento, nell’immediatezza di esso, ed il responsabile del reparto della struttura sanitaria per il ricovero durante la fase postoperatoria”.
Condannati medici e ospedale
Quella in esame era certamente una complicanza prevedibile ed evitabile e l’assenza di controlli doverosi dei parametri interessati, nei tempi previsti dalle regole dell’arte, non può che fondare un giudizio di responsabilità dei sanitari che, in tempi diversi, a quei controlli erano obbligati.
È infatti pacifico (per tutte vds. Cass. n. 3492 dell’11 marzo 2002) che in tema di risarcimento del danno, il medico chirurgo, nell’adempimento delle obbligazioni contrattuali inerenti alla propria attività professionale, è tenuto ad una diligenza che non è solo quella del buon padre di famiglia ex art. 1176, primo comma, cod. civ., ma è quella specifica del debitore qualificato, come prescritto dall’art. 1176, secondo comma, cod. cit., la quale comporta il rispetto di tutte le regole e gli accorgimenti che nel loro insieme costituiscono la conoscenza della professione medica, ivi compreso l’obbligo di sorveglianza sulla salute del soggetto operato anche nella fase postoperatoria.
Per quanto concerne poi la responsabilità della struttura ospedaliera convenuta, il Tribunale condivide la tesi secondo cui il rapporto che si instaura tra paziente e casa di cura (o ente ospedaliero) ha la sua fonte in un atipico contratto a prestazioni corrispettive con effetti protettivi nei confronti del terzo, da cui, a fronte dell’obbligazione al pagamento del corrispettivo (che ben può essere adempiuta dal paziente, dall’assicuratore, dal servizio sanitario nazionale o da altro ente), insorgono a carico della casa di cura (o dell’ente), accanto a quelli di tipo “lato sensu” alberghieri, obblighi di messa a disposizione del personale medico ausiliario, del personale paramedico e dell’apprestamento di tutte le attrezzature necessarie, anche in vista di eventuali complicazioni od emergenze. Ne consegue che la responsabilità della casa di cura (o dell’ente) nei confronti del paziente ha natura contrattuale e può conseguire, ai sensi dell’art. 1218 cod. civ., all’inadempimento delle obbligazioni direttamente a suo carico, nonché, in virtù dell’art. 1228 cod. civ., all’inadempimento della prestazione medico-professionale svolta direttamente dal sanitario, quale suo ausiliario necessario pur in assenza di un rapporto di lavoro subordinato, comunque sussistendo un collegamento tra la prestazione da costui effettuata e la sua organizzazione aziendale.
Tutti i convenuti vengono quindi condannati, in solido, al risarcimento del danno.
La quantificazione del danno biologico: 150mila euro!
I CTU hanno valutato preliminarmente che in relazione alle condizioni fisiche della paziente al momento dell’intervento, l’invalidità permanente determinata dalla cecità irreversibile è pari al 25%, mentre i postumi invalidanti e risarcibili sono pari ad un’inabilità temporanea di 15 gg totale e di 30 gg parziale al 50%; infine, i postumi sono di natura ed entità tali da incidere sull’attività di lavoro dell’attrice in misura pari al 25%.
In base alle Tabelle di Milano, pertanto, tenuto conto dell’età dell’attrice all’epoca del sinistro (51 anni) e dell’importo di 100,00 euro quale valore del punto base ITT, vengono liquidarsi i seguenti importi: Euro 98.918,00 a titolo di danno non patrimoniale risarcibile, Euro 2.250 a titolo di danno biologico temporaneo ed Euro 3337,31 a titolo di rimborso spese documentate.
Per quanto riguarda la personalizzazione del danno, occorre tener conto che i CTU stimano nella misura del 25% l’incidenza della menomazione sull’attività di lavoro dell’attrice, da intendersi riferita alla sua capacità di lavoro generica.
Condivisa tale valutazione riferita alla capacità di lavoro generica, tenuto conto anche dell’indiscutibile sofferenza psichica determinata dall’evento ed ampiamente documentata dall’attrice e dalle conseguenze intuibili che ne sono derivate in termini estetici e di accettazione di quanto occorso, il Tribunale stima equo aumentare del 50% il valore del danno non patrimoniale risarcibile, liquidando l’ulteriore importo di Euro 49.459,00.
Viene quindi riconosciuto all’attrice l’importo complessivo di Euro 153.964,31 euro!
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