Con questo articolo commentiamo la sentenza della Corte di Cassazione penale sez. IV, n. 16843 del 24 febbraio 2021, con cui è stata confermata la condanna del medico che, nonostante la presenza di sintomi di un grave malessere, ha dimesso dal Pronto Soccorso un paziente, morto poco dopo per ischemia.
Partiamo da una breve descrizione della patologia.
Ischemia
Per ischemia si intende la diminuzione o interruzione del flusso di sangue in una parte del corpo, con conseguente necrosi dei distretti anatomici interessati dall’ischemia, a cui non giunge ossigeno.
Tra le principali cause di una ischemia vi sono un’embolia (accumulo nel sangue di materiale solido portato in circolo), una trombosi (coagulo di sangue all’interno di vene o arterie) o un evento traumatico.
Gli organi più colpiti da ischemia sono il cuore, il cervello, l’intestino e le estremità degli arti superiori o inferiori.
I fatti di causa
La Corte d’appello di Brescia, in data 30 gennaio 2020, sostanzialmente confermava la sentenza del Tribunale di Mantova del 10 ottobre 2018, con la quale l’imputato S.C.E.J. e il responsabile civile Ospedale San Pellegrino erano stati condannati in relazione al delitto di omicidio colposo in danno di B.A., deceduto in (OMISSIS).
In estrema sintesi il B., nel pomeriggio del (OMISSIS), rientrando dal lavoro aveva accusato un dolore al braccio sinistro e “un pò qua davanti“, come riferito dalla madre, P.N., e da F.F. nelle rispettive deposizioni. La P. praticava allora al figlio un’iniezione di Contramal, indi il B. si coricava; alle 2 di notte però si svegliava, lamentando la persistenza del dolore, e veniva accompagnato al Pronto soccorso dell’ospedale di (OMISSIS), ove l’odierno imputato S.C., quella notte, era in servizio come medico di turno.
Sulla base dei sintomi riferiti al medico, risultava che il B. lamentava dolore ad ambo le braccia e riferiva di avere avuto un episodio di vomito dopo avere mangiato; il dolore, che a detta del paziente si era presentato con modalità analoghe un anno prima, risultava aumentare alla digitopressione; il controllo dei valori pressori e del battito cardiaco dava esiti nella norma.
Il B. veniva quindi dimesso dal S.C. con diagnosi di “dispepsia, algia arti superiori” e correlate prescrizioni farmacologiche.
Tornato a casa, si coricava, ma il mattino dopo (alle 07.30) la madre ne constatava il decesso.
La consulenza tecnica d’ufficio
La consulenza medico legale disposta nell’ambito del procedimento, a seguito di autopsia e di indagini tossicologiche, indicava, quale causa del decesso, un “evento ischemico coronarico acuto, conseguente a trombosi di un ramo coronarico, a sua volta secondario a fissurazione di placca ateromasica, in soggetto affetto da severa miocardiopatia ischemica cronica e aterosclerosi diffusa”.
Sebbene più soggetti qualificati, compresi il C.T.U. e i periti nominati nel corso dell’udienza preliminare (prof. T. e d.ssa Se.), abbiano dato atto della natura scarsamente tipica della sintomatologia del B. (mancando in particolare il caratteristico sintomo della precordialgia), nondimeno veniva presa in considerazione la suggestiva “concomitanza del dolore alle braccia e dell’episodio di vomito, che – considerata la non infrequente casistica di episodi di infarto caratterizzati da sintomi atipici o addirittura assenti – avrebbe dovuto essere presa in considerazione ai fini di una diagnosi differenziale rispetto a quella formulata”.
In sostanza, le valutazioni peritali si sono appuntate sul fatto che, “se il S.C., anzichè dimettere nel giro di nemmeno un’ora il B., avesse esperito indagini su una possibile origine ischemica della sintomatologia, disponendo un ECG e il dosaggio della troponina, ragionevolmente vi sarebbe stato il tempo sufficiente per intervenire utilmente sul B., aumentando in modo significativo le sue possibilità di sopravvivere”.
La Corte di merito, nel replicare ai motivi di doglianza dell’imputato e del responsabile civile proposti con i rispettivi atti d’appello, ha ravvisato la sussistenza del nesso di causalità tra la condotta omissiva e l’evento, inquadrando la condotta del S.C. come caratterizzata da colpa grave.
I principi fondamentali in tema di rapporto di causalità nel reato colposo omissivo improprio
Insegna la sentenza a Sezioni Unite Franzese che, nel reato colposo omissivo improprio, il rapporto di causalità tra omissione ed evento non può ritenersi sussistente sulla base del solo coefficiente di probabilità statistica, ma deve essere verificato alla stregua di un giudizio di alta probabilità logica, sicchè esso è configurabile solo se si accerti che, ipotizzandosi come avvenuta l’azione che sarebbe stata doverosa ed esclusa l’interferenza di decorsi causali alternativi, l’evento, con elevato grado di credibilità razionale, non avrebbe avuto luogo ovvero avrebbe avuto luogo in epoca significativamente posteriore o con minore intensità lesiva (Sez. U, Sentenza n. 30328 del 10/07/2002, Franzese, Rv. 222138).
Viceversa, sempre secondo la stessa sentenza, l’insufficienza, la contraddittorietà e l’incertezza del nesso causale tra condotta ed evento, e cioè il ragionevole dubbio, in base all’evidenza disponibile, sulla reale efficacia condizionante dell’omissione dell’agente rispetto ad altri fattori interagenti nella produzione dell’evento lesivo comportano l’esito assolutorio del giudizio (Rv. 222139).
Il tema, su scala generale, è stato successivamente affrontato dalle Sezioni Unite nell’ambito di tutt’altra vicenda, ossia nel c.d. processo Thyssenkrupp: vi si è affermato – sempre nel caso di reato colposo omissivo improprio – che il rapporto di causalità deve bensì essere verificato alla stregua di un giudizio di alta probabilità logica (come già nella sentenza Franzese), ma tale giudizio deve a sua volta essere fondato, oltre che su un ragionamento di deduzione logica basato sulle generalizzazioni scientifiche, anche su un giudizio di tipo induttivo elaborato sull’analisi della caratterizzazione del fatto storico e sulle particolarità del caso concreto (Sez. U, Sentenza n. 38343 del 24/04/2014, Espenhahn e altri, Rv. 261103).
Venendo a un caso per certi versi analogo a quello in esame (ossia quello di un sanitario del pronto soccorso di cui è stato rigettato il ricorso avverso la conferma della condanna per il decesso di un paziente, al quale non era stato diagnosticato un infarto acuto del miocardio per cui era stato omesso il trasferimento presso un’unità coronarica per l’esecuzione di un intervento chirurgico che avrebbe avuto un’elevata probabilità risolutiva), la Corte di Cassazione ha affermato che è configurabile la sussistenza del nesso di causalità tra condotta ed evento, qualora esso sia stato accertato con giudizio controfattuale che, sebbene non fondato su una legge scientifica di spiegazione di natura universale o meramente statistica – per l’assenza di una rilevazione di frequenza dei casi esaminati – ma su generalizzate massime di esperienza e del senso comune, sia stato comunque ritenuto attendibile secondo criteri di elevata credibilità razionale, in quanto fondato sulla verifica, anche empirica, ma scientificamente condotta, di tutti gli elementi di giudizio disponibili, criticamente esaminati (Sez. 4, Sentenza n. 29889 del 05/04/2013, De Florentis, Rv. 257073).
Più di recente, sempre in un caso analogo e muovendo da analoghi principi (Sez. 4, Sentenza n. 33230 del 18/11/2020, Campo c. D’Agostino, Rv. 280074), la Corte è pervenuta a una decisione opposta: è stato bensì ribadito ii principio secondo il quale il meccanismo controfattuale, necessario per stabilire che, secondo un giudizio di alta probabilità logica, l’azione doverosa omessa avrebbe impedito l’evento, si deve fondare non solo su affidabili informazioni scientifiche, ma anche sulle contingenze significative del caso concreto; ma nella fattispecie, relativa al decesso di un paziente per arresto cardiaco, la Corte ha ritenuto immune da censure la sentenza con la quale il giudice aveva assolto l’imputato valutando che la mancata e tempestiva diagnosi, attraverso la sottoposizione al tracciato elettrocardiografico e l’effettuazione del dosaggio degli enzimi cardiaci, della patologia cardiaca di cui soffriva l’uomo, non avrebbe evitato l’evento mortale, poichè in quel caso, tenuto conto del momento del suo arrivo al pronto soccorso, del tempo necessario per eseguire gli esami strumentali e diagnostici, nonchè della distanza chilometrica con il più vicino centro sanitario attrezzato, l’intervento coronarico percutaneo necessario ad evitare l’insorgenza dell’aritmia fatale avrebbe comunque avuto luogo in epoca significativamente successiva a quella richiesta per avere un effetto salvifico.
La Corte di Cassazione condanna la scelta del medico
Calando i richiamati principi nella vicenda che ne occupa, la Corte di Cassazione ritiene che la sentenza impugnata evidenzi come nello stesso presidio ospedaliero, ove il Dott. S. svolgeva il suo turno di pronto soccorso al momento dell’arrivo del paziente B., fosse attivo un reparto di cardiologia con unità di terapia intensiva coronarica, in grado di praticare tempestivamente la defibrillazione, con esiti prevedibilmente istantanei e favorevoli al paziente: è ben chiara e affatto conducente sul piano razionale la conclusione della Corte distrettuale nell’affermare che, mentre il B., tornato a casa e coricatosi, non era monitorato quando sopravvenne l’aritmia mortale, qualora invece egli fosse rimasto nello stesso ospedale e sottoposto a monitoraggio (come sarebbe certamente avvenuto nel caso fossero stati eseguiti gli accertamenti dovuti e colposamente omessi dall’odierno ricorrente), l’aritmia sarebbe stata interrotta con effetto immediato con applicazione della defibrillazione elettrica, e con esito salvifico.
Ove i necessari esami diagnostici fossero stati eseguiti dal Dott. S. nella prospettiva di una diagnosi differenziale, l’episodio infartuale acuto in corso sul B. sarebbe stato immediatamente accertato, il paziente sarebbe stato immediatamente avviato all’unità di terapia intensiva coronarica, ove gli sarebbe stata praticata la defibrillazione e, con elevato grado di probabilità logica, il paziente stesso si sarebbe salvato.
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