Vi raccontiamo un caso trattato dal Tribunale di Milano con la sentenza n. 2149 del 19 marzo 2020, che ha condannato una casa farmaceutica a risarcire un uomo che, a seguito di cure contro il Parkinson con un medicinale della casa farmaceutica, è diventato ludopatico sperperando i risparmi suoi e della azienda in cui lavorava.
Il morbo di Parkinson
Come al solito, quando parliamo di casi di malasanità, diamo una breve descrizione della malattia per cui si è svolto il caso.
Il morbo di Parkinson è una patologia correlata alla degenerazione di cellule nervose di una parte del cervello, a cui segue la produzione di dopamina, che è un neurotrasmettitore responsabile dei movimenti del corpo e dell’equilibrio.
I sintomi della malattia sono diversi: il tremore a riposto, la lentezza e diminuzione dei movimenti, la rigidità, l’instabilità dell’equilibrio.
Secondo gli ultimi dati forniti dal Ministero della Salute, sono più di 250mila gli italiani affetti dal Parkinson, in maggioranza uomini, di cui il 70% con più di 65 anni di età.
Il caso trattato dal Tribunale di Milano
Un uomo ha convenuto in giudizio innanzi al Tribunale di Milano due case farmaceutiche, domandando l’accertamento della responsabilità solidale delle convenute e, conseguentemente, la loro condanna al risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali da lui patiti in ragione dell’assunzione di due medicinali per la cura del morbo di Parkinson che hanno determinato effetti collaterali incontrollabili, tra cui, in particolare ludopatia ed ipersessualità, cagionando notevoli sconvolgimenti nella vita dell’attore.
Invero, nonostante la sua indole tranquilla e parsimoniosa, dopo poche settimane dall’assunzione quotidiana dei farmaci iniziava ad avere problemi sessuali e a giocare d’azzardo e negli anni dilapidava il proprio patrimonio e attingeva alle casse dell’impresa presso cui da vent’anni prestava la propria attività lavorativa, arrivando a prelevare la somma di complessivi euro 150.000,00.
Accusava dei problemi suddetti le case farmaceutiche perché, nonostante vi fossero studi clinici conosciuti dalle due imprese farmaceutiche sul collegamento, da un lato, tra assunzione di farmaci dopamino agonisti e, dall’altro lato, della manifestazione di ipersessualità e propensione patologica al gioco d’azzardo sin dagli anni ’90, solo dal 2005 sarebbero stati indicati tra gli effetti collaterali i problemi di cui era affetto.
Quindi, se avesse avuto conoscenza degli effetti indesiderati gravissimi provocati dall’assunzione di detti farmaci, nonostante i benefici che gli stessi hanno apportato nel corso degli anni alla manifestazione dei sintomi del morbo di Parkinson, non li avrebbe assunti.
La responsabilità del produttore di farmaci ai sensi dell’art. 2050 c.c.
Il Tribunale ha qualificato l’azione dell’uomo ai sensi dell’art. 2050 del codice civile, secondo cui l’esercente di un’attività da classificarsi come pericolosa, per sua natura o per la natura dei mezzi utilizzati, è tenuto a risarcire il danno, se non prova di aver adottato tutte le misure idonee ad evitarlo.
Il Tribunale di Milano ha fatto il punto sulla responsabilità della casa farmaceutica osservando quanto segue.
A fine di delimitare l’ambito di operatività della norma, occorre preliminarmente definire il concetto di “attività pericolosa”. Sul punto si osserva che, il testuale richiamo normativo all'”attività” induce a ritenere che sia necessario il presupposto di una continuità di atti e di predisposizione di mezzi, tanto che, siccome tutte le attività umane contengono in sé un grado più o meno elevato di pericolosità per coloro che le esercitano, al fine di rendere applicabile l’art. 2050 c.c. va sempre operata una netta distinzione tra pericolosità della condotta e pericolosità dell’attività in sé considerata. La prima riguarda un’attività normalmente innocua, che assume i caratteri della pericolosità a causa della condotta imprudente o negligente dell’operatore, ed è pertanto elemento costitutivo della responsabilità ex art. 2043 c.c. La seconda concerne un’attività che, invece, è potenzialmente dannosa di per sé per l’alta percentuale di danni che può provocare in ragione della sua natura o della natura dei mezzi adoperati ed è una componente della responsabilità indicata dall’art. 2050 dello stesso codice (così Cass. civ., 21 ottobre 2005, n. 20557; Cass. civ., 26 aprile 2004, n. 7916).
Inoltre, sebbene la norma si riferisca testualmente alle sole “attività”, è bene precisare che per parte della giurisprudenza va altresì ricompresa nell’ambito applicativo della fattispecie in esame la cosiddetta “omissione pericolosa”, che, per assumere rilevanza, presuppone comunque l’esercizio di un’attività, poiché consiste nel difetto di predisposizione di misure cautelative e preventive, da adottarsi in concreto in relazione alla natura dell’attività esercitata, alla stregua delle norme di comune diligenza e prudenza (Cass. civ., 7 maggio 2007, n. 10300, Cass. civ., 16 gennaio 2013, n. 919).
Così chiarita la nozione di attività, resta da definire quando essa possa dirsi “pericolosa” ex art. 2050 c.c. Al riguardo, secondo giurisprudenza costante della Corte di Cassazione, deve intendersi tale non solo quell’attività espressamente qualificata pericolosa dalla legge e, segnatamente dalla legge di Pubblica Sicurezza, o da altre normative speciali in materia di infortuni sul lavoro e di protezione di dati personali (cfr. sul punto l’art. 15 d.lgs. 30 giugno 2003, n. 196, Testo Unico della Privacy, che richiama espressamente la norma in esame), ma anche ogni altra che, pur non essendo legislativamente prevista, tuttavia presenti una pericolosità intrinseca, o relativa ai mezzi impiegati (Cass. civ., 27 maggio 2005, n. 11275; Cass. civ., 20 luglio 1993, n. 8069).
Vengono, in particolare, considerati indici rilevatori della pericolosità: la frequenza statistica con la quale dall’esercizio dell’attività derivi un certo tipo di danno (c.d. elevata probabilità), o la gravità del danno che una determinata attività può in astratto cagionare (c.d. potenzialità dannosa), considerate in relazione al criterio della normalità media e rilevate attraverso dati statistici o, laddove essi manchino, mediante elementi tecnici e della comune esperienza (Cass. S.U.,11 gennaio 2008, n. 582; Cass. civ., 6 aprile 2006, n. 8095).
Va, inoltre, aggiunto che, a seguito di un’iniziale interpretazione restrittiva dell’art. 2050 c.c., l’orientamento più recente della giurisprudenza di legittimità tende ad estendere il giudizio di “pericolosità” anche al bene finale dell’attività produttiva, sempre che quest’ultimo ne abbia conservato la potenzialità lesiva nei confronti dei consumatori-utenti (Cass. civ., sent. 30 agosto 2004, n. 17639 ed in relazione al carattere pericoloso ex art. 2050 c.c. degli emoderivati, Cass. civ., sent. 27 gennaio 1997, n. 814).
Nello specifico, sul presupposto della mancanza di una base normativa per limitare la responsabilità ex art. 2050 c.c. al solo momento produttivo, la Suprema Corte è giunta a sostenere che, qualora l’attività abbia ad oggetto la realizzazione di un prodotto destinato alla commercializzazione e poi al consumo, “la caratteristica di “pericolosità” può riguardare anche tale prodotto, indipendentemente dal punto che esso sia altamente idoneo a produrre i danni non nella fase della produzione o della commercializzazione, ma nella fase del consumo. Infatti ove l’attività considerata sia quella della produzione finalizzata al commercio e quindi all’uso da parte del consumatore, è ovvio che, se quell’attività sostanzialmente diffonde nel pubblico un rilevante pericolo, tale attività debba per sua natura definirsi pericolosa, tanto più se il pericolo invocato sia quello conseguente all’uso tipico e normale di quel prodotto e non ad un uso anomalo” (così Cass. civ., 17 dicembre 2009 n. 26516 in tema di danno da fumo).
La giurisprudenza ha poi chiarito che la responsabilità ex art. 2050 c.c. è altro rispetto alla responsabilità del produttore per prodotto difettoso di cui al D.P.R. 24 maggio 1988, n. 224 (attualmente abrogato e recepito dal d.lgs. n. 206/2005, art. 114Cod. Cons. e ss.) perché la responsabilità ex art. 2050 c.c. ricorre quando “non vi è un vizio del prodotto, ma la pericolosità è intrinseca al prodotto stesso”.
Sempre rispetto alla fattispecie di cui all’art. 2050 c.c. si rileva che l’orientamento maggioritario qualifica la responsabilità come oggettiva e sottolinea come, al fine di veder affermata la responsabilità dell’esercente di cui all’art. 2050 c.c., il danneggiato deve fornire la prova del nesso di causalità sussistente tra lo svolgimento dell’attività e l’evento dannoso. A tal fine non è sufficiente, infatti, che l’accadimento lesivo si sia verificato nell’ambiente dell’esercente, o in presenza di una cosa pericolosa e nemmeno che il soggetto danneggiante non possa essere investito di una responsabilità rispetto ad un evento che non sia ad esso riconducibile. La responsabilità va esclusa però tutte le volte in cui nella causazione dell’illecito sia intervenuto un fattore esterno, idoneo a determinare l’evento dannoso in via esclusiva, interrompendo il nesso eziologico tra il fatto generatore (esercizio dell’attività) e l’evento dannoso stesso. Tale causa sopravvenuta deve rivestire i caratteri dell’eccezionalità, dell’inevitabilità e dell’oggettiva imprevedibilità, tipici del caso fortuito.
Infatti, come precisato dalla Suprema Corte, sebbene il caso fortuito sia espressamente previsto come causa liberatoria solo dagli artt. 2051 e 2052 c.c., esso attiene al profilo causale e rileva in qualsivoglia ipotesi di illecito, anche di natura oggettiva, sulla scorta del generale principio secondo cui il nesso eziologico costituisce elemento ontologico irrinunciabile di ogni fattispecie di responsabilità; ne consegue che, “nell’ipotesi in cui l’esercente dell’attività pericolosa non abbia adottato tutte le misure idonee ad evitare il danno, realizzando quindi una situazione astrattamente idonea a fondare una sua responsabilità ex art. 2050 c.c., la causa efficiente sopravvenuta, che da sola sia stata idonea a causare l’evento, recide il nesso eziologico che si sarebbe innestato tra l’attività pericolosa stessa, esercitata in assenza di misure di cautela idonee, e l’evento, se questa causa sopravvenuta è idonea a determinare l’evento in via esclusiva, costituendo – invece – causa concorrente, se l’evento dannoso si ricolleghi eziologicamente ad entrambe le cause (cioè all’attività pericolosa, in assenza di idonee cautele, ed alla causa sopravvenuta)” (Cass. civ., 4 maggio 2004, n.8457, ed in termini anche Cass. civ., 22 dicembre 2011, n. 28299; Cass. civ., sent., 5 marzo 2012, n. 3424; Cass. civ., 5 gennaio 2010, n. 25).
Anche nell’ipotesi in cui sia ignota la causa dell’evento dannoso, la responsabilità ex art. 2050 c.c. va in ogni caso affermata ove risulti non interrotto il nesso di causalità con l’esercizio dell’attività pericolosa, mentre va esclusa ove sussista incertezza sul fattore causale e sulla riconducibilità del fatto all’esercente.
Dalle considerazioni che precedono, discende che, ai sensi dell’art. 2050 c.c., incombe in ogni caso sull’attore danneggiato l’onere di provare: l’esistenza di un’attività, avente carattere pericoloso, per sua natura o per la natura dei mezzi impiegati, il danno subito e la circostanza che l’esercizio di quell’attività abbia cagionato l’evento lesivo lamentato (nesso causale tra fatto generatore e danno).
L’esercente deve al contrario a sua volta dimostrare “di aver adottato tutte le misure idonee ad evitare il danno” al fine di liberarsi della responsabilità ascrittagli. Dalla qualificazione della natura oggettiva della responsabilità discende, a sua volta, che la responsabilità di cui all’art. 2050 c.c. non si fonda su un comportamento dell’esercente, ma su una relazione oggettiva tra l’esercizio dell’attività e l’evento dannoso, con l’effetto che, a prescindere dalla diligenza o meno della condotta del danneggiante (quindi anche nell’ipotesi in cui egli abbia omesso di approntare le misure idonee ad evitare il danno, cfr. sempre Cass. civ., 4 maggio 2004, n. 8457), quest’ultimo potrà liberarsi provando l’esistenza di un fattore, estraneo alla sua sfera soggettiva, idoneo ad interrompere il nesso causale tra l’attività pericolosa ed il danno.
Tanto premesso in termini generali in ordine alla responsabilità ex art. 2050 c.c., si osserva che la Suprema Corte si è recentemente espressa proprio in tema di responsabilità da produzione di farmaco immesso in commercio in un caso in cui un paziente aveva sviluppato un effetto collaterale molto raro, segnalato tra le controindicazioni conseguenti all’assunzione del medicinale nel relativo foglietto illustrativo. La Suprema Corte nella pronuncia n. 6587/2019, pur cassando la sentenza pronunciata dalla Corte di Appello di Brescia n. 325/2017 e delimitando l’interpretazione dell’art. 2050 c.c., ha confermato che l’attività di produzione di farmaci possa essere sussunta nel novero dell’art. 2050 c.c., fornendo indicazioni interpretative estremamente rilevanti.
La Suprema Corte ha, infatti, ancora una volta ribadito che la normativa comunitaria sui prodotti difettosi citata non escluda la cumulabilità con il disposto di cui all’art. 2050 c.c., in quanto si tratta di norme con diversa ratio e diversa sfera di operatività, rimarcando, quindi, come la non difettosità del farmaco non escluda l’operatività dell’art. 2050 c.c., essendo la pericolosità del prodotto immesso in commercio fonte della responsabilità ex art. 2050 c.c.
La Suprema Corte ha poi chiarito in che termini l’esercente di attività pericolosa possa andare esente da responsabilità, precisando che: “è necessario valutare da un lato la rigorosa osservanza di tutte le sperimentazioni e i protocolli previsti dalla legge prima della produzione e della commercializzazione del farmaco ..; dall’altro l’adeguatezza della segnalazione dell’effetto indesiderato, dovendosi solo per completezza qui precisare che non una qualunque informativa circa i possibili effetti collaterali del farmaco possa scriminare la responsabilità dell’esercente, essendo invece necessario che l’impresa farmaceutica svolga una costante opera di monitoraggio e di adeguamento delle informazioni commerciali e terapeutiche, allo stato di avanzamento della ricerca, al fine di eliminare o almeno ridurre il rischio di effetti collaterali dannosi e di rendere edotti nella maniera più completa ed esaustiva possibile i potenziali consumatori” (cfr. Cass. 6587/2019).
Gli obblighi delle case farmaceutiche
Il Tribunale di Milano, ritenuto che l’attività di produzione di farmaci sia una attività “pericolosa”, pur in assenza di una specifica previsione di legge che ne sancisca la pericolosità, riporta normative europee e nazionali che ne disciplinano l’attività di produzione e commercio di medicinali.
In particolare va rilevato che la normativa dell’Unione Europea prevede una serie di obblighi estremamente stringenti che devono essere rispettati dalla casa farmaceutica che immette in commercio il medicinale, tanto al momento della richiesta di autorizzazione, prodromica all’immissione in commercio, quanto nella fase successiva di monitoraggio, verifica e aggiornamento dei dati già raccolti e comunicati.
Ai sensi dell’art. 4 della Direttiva del Consiglio del 26 gennaio 1965, n. 65 è previsto, infatti, che “per ottenere il rilascio dell’autorizzazione all’immissione in commercio prevista dall’articolo 3, il responsabile di detta immissione in commercio presenta una domanda all’autorità competente dello Stato membro”; “la domanda deve essere corredata anche da … Indicazioni terapeutiche, controindicazioni ed effetti secondari”, nonché da “il riassunto delle caratteristiche del prodotto redatto conformemente all’articolo 4 bis, uno o più campioni o esemplari del modello-vendita della specialità medicinale e il foglietto illustrativo, se è previsto che esso sia allegato alla specialità”.
Il riassunto delle caratteristiche del prodotto, di cui all’articolo 4, secondo comma, punto 9, contiene: “(…) 5.2 controindicazioni, 5.3 effetti indesiderati (frequenza e gravità)”.
Dalla summenzionata normativa si evince pertanto l’obbligo di comunicare tutte le informazioni rilevanti, dando conto anche degli effetti indesiderati dei farmaci, avendo cura di precisare la frequenza statistica e l’importanza degli stessi.
Allo stesso modo dall’art. 15 del reg. n. 2309/1993 si evince, anche successivamente all’immissione in commercio, l’obbligo del responsabile dell’immissione in commercio di informare immediatamente l’Agenzia, la Commissione e gli Stati membri di tutti i nuovi dati che possano comportare una modifica delle informazioni e dei documenti riassuntivi, o del riassunto approvato delle caratteristiche del prodotto e, in ogni caso, di fornire ogni altra informazione atta ad incidere sulla valutazione degli effetti positivi e dei rischi del relativo medicinale.
Ai sensi dell’art. 21 è previsto anche che il responsabile dell’immissione in commercio disponga a titolo stabile e continuativo di una persona specificamente qualificata, incaricata della farmacovigilanza, responsabile dell’istituzione e del funzionamento di un sistema idoneo a garantire che le informazioni su tutti i presunti effetti collaterali negativi comunicate al personale della società e ai rappresentanti farmaceutici siano raccolte, valutate e ordinate in modo da essere accessibili in un unico luogo all’interno della Comunità, dell’elaborazione delle relazioni per le autorità competenti degli Stati membri e l’Agenzia, nonché della “trasmissione di una risposta rapida ed esauriente ad ogni richiesta dell’autorità competente di informazioni supplementari ai fini della valutazione degli effetti positivi e dei rischi di un medicinale”.
Inoltre il successivo art. 22 impone:
Il foglio illustrativo, c.d. “bugiardino”
Oltre agli obblighi informativi nei confronti degli organi preposti alla vigilanza, della Commissione Europea e degli stati membri, sono in ogni caso anche previsti puntuali obblighi informativi direttamente nei confronti dei pazienti.
In attuazione della direttiva 92/27 CE, che ha affermato l’esigenza di garantire un elevato livello di tutela per i consumatori, all’art. 5 del d. lgs n. 540/1992 è stata prevista la disciplina del cd. foglietto illustrativo, vale a dire del documento da inserire obbligatoriamente in ogni medicinale oggetto di commercializzazione.
Il cd. bugiardino deve recare, infatti, l’indicazione di tutte le informazioni rilevanti, tra cui anche le “controindicazioni; opportune precauzioni d’impiego; interazioni con altri medicinali e interazioni di qualsiasi altro genere (ad esempio con alcool, tabacco, cibi), potenzialmente in grado d’influenzare l’azione del medicinale; avvertenze speciali; in particolare, se del caso, avvertenze sui possibili effetti del trattamento”.
Gli art. 4 del d. lgs n. 178/1991 e l’art. 3 del d. lgs n. 44/1997 ricalcano poi la disciplina già prevista dalle previsioni del Regolamento dell’Unione Europea, richiamato in tema di istituzione di un responsabile di servizio di farmaco vigilanza, nonché di informazione di modifiche delle indicazioni già comunicate alle Agenzie ed agli Stati membri. Detti obblighi sono stati ampliati anche dall’entrata in vigore del d. lgs. n. 95/2003 e del d.lgs. n. 219/2003 in tema di registrazione e comunicazione immediata di “reazioni avverse da medicinali”, osservate in Italia, nell’Unione Europea e in un Paese terzo.
Il nesso di causalità tra farmaco ed effetti collaterali
In corso di causa il Tribunale ha disposto una Consulenza Tecnica d’Ufficio che ha dimostrato che l’assunzione di “dopamino agonisti” per la cura del Parkinson inducono svariati disturbi del controllo degli impulsi, come nel caso di specie, gioco d’azzardo, ipersessualità, oltre che cosiddetto punding, shopping compulsivo, alimentazione smodata, guida spericolata.
Diversa è stata la conclusione per il “pramipexolo”, non essendo stato possibile affermare che questo farmaco abbia incrementato le anomalie.
Quindi, secondo il Tribunale è stato dimostrato che il farmaco che presentava come controindicazioni la ludopatia, effettivamente ha provocato tale patologia al paziente.
La sola casa farmaceutica produttrice del farmaco con controindicazione di ludopatia, d’altra parte, non ha dimostrato, come era suo onere, la verificazione di un fattore esterno, tale da interrompere il nesso causale tra fatto ed evento dannoso e tale da superare l’adozione diligente, prudente e perita di tutte le misure idonee ad evitare il danno.
Nel caso di specie non è stata dimostrata alcuna ipotesi di caso fortuito da parte della convenuta.
La quantificazione dei danni
All’uomo che ha assunto il farmaco da cui è derivato l’effetto collaterale della ludopatia è stato riconosciuto un risarcimento danni di 200mila euro per danni non patrimoniali dovuti all’invalidità temporanea per tutto il periodo in cui è stato ludopatico, oltre personalizzazione.
Al danno non patrimoniale suddetto, è stata aggiunta la somma di 280mila euro a titolo di danno patrimoniale, per perdite e mancati guadagni dovuti alla malattia, somma da devalutare alla data dei fatti e rivalutare con interessi.
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