Un uomo di 46 anni viene ricoverato d’urgenza in Pronto Soccorso per dolori al torace e i medici non si rendono conto, come avrebbero potuto e dovuto, che aveva in corso un’aneurisma all’aorta.
A seguito della morte del paziente, che poteva essere evitata, i medici vengono denunciati e condannati dal Tribunale di Lucca e dalla Corte d’Appello di Firenze. Le condanne vengono poi confermate dalla Corte di Cassazione Penale sezione IV con la sentenza n. 54802 del 12 giugno 2018.
Il reato contestato è stato quello di omicidio colposo per avere cagionato la morte del paziente per colpa consistita in negligenza ed imperizia nonchè nella violazione delle regole dell’arte medica e, precisamente, per avere omesso di valutare correttamente ed approfondire le risultanze della radiografia toracica da cui emergeva una “salienza dell’arco aortico” e, conseguentemente, per non avere praticato le congrue terapie in relazione alla patologia di “aneurisma all’aorta in atto che determinava il versamento pericardico dovuto alla dissezione di un tratto aneurismatico dell’aorta discendente”.
L’aneurisma all’aorta
L’aorta è il più grande vaso arterioso dell’organismo: emerge dal ventricolo sinistro del cuore e trasporta il sangue ossigenato a tutte le parti del corpo tramite la circolazione sistemica.
L’aneurisma all’aorta è una dilatazione molto marcata dell’aorta, complicata dalla rottura dello strato più interno della parete aortica, con conseguente penetrazione di sangue all’interno della parete.
La dissecazione aortica tende a progredire fino alla rottura di tutta la parete aortica.
Se viene diagnosticato e trattato prima della rottura le possibilità di successo si avvicinano al 97-98% (dati forniti dalla Societa’ italiana di Angiologia e Patologia Vascolare.
La ricostruzione dei fatti
Verso le ore 07,00 del (OMISSIS) G.R. si trovava in bagno intento a prepararsi quando avvertiva improvvisamente un forte dolore al petto all’altezza dello sterno, tanto da non riuscire a continuare ad utilizzare il phon che teneva nella mano destra ed era costretto a sdraiarsi sul letto ove la moglie, immediatamente accorsa in suo aiuto, provvedeva ad alzargli le gambe per evitare che svenisse; non appena ripresosi, dopo qualche minuto, in termini apparentemente stabili, il G. si recava nuovamente in bagno dove però, non appena si accingeva a riprendere in mano il phon, avvertiva il medesimo dolore. I familiari contattavano telefonicamente il locale Servizio Sanitario di Assistenza ed Emergenza che inviava sul posto un’automedica (con medico ed infermiera) e, poco dopo, un’ambulanza. Nella scheda di intervento redatta alle ore 07.40 dai medici della Centrale Operativa 118 veniva indicata, tra le ragioni di urgenza, la manifestazione di una “presincope” nonchè la lamentata presenza di dolore retro – sternale irradiato al giugulo ed era annotato il punteggio 15 di GCS (Glasgow Coma Scale).
I sanitari intervenuti, dopo i primi accertamenti clinici eseguiti direttamente presso la sua abitazione (tra cui l’elettrocardiogramma che dava esito negativo), decidevano di condurre, verso le ore 08.00, il G. al Pronto Soccorso dell’Ospedale (OMISSIS). Il medico di turno dott. Co. annotava nell’anamnesi effettuata alle ore 08,09 “una familiarità per cardiopatia, la presenza, da circa un’ora, di dolore toracico irradiato al giugulo” e riscontrava, all’esame obiettivo, il punteggio 7 del c.d. chest pain score (su una soglia massima di 10) nonchè il livello 15 di GCS (Glasgow Corna Scale).
Gli esami ematochimici, subito richiesti, evidenziavano una lieve anemizzazione (Hb: 13,2 g./dL; VN: 14 – 18 g./dL), con modesto calo dell’ematocrito (39,4%; VN: 42 – 52%) e del numero di eritrociti.
Nel descritto contesto il dott. Co., a causa del dolore toracico, disponeva, in applicazione del protocollo operativo previsto per il sospetto infarto al miocardio, la sottoposizione del G. ai consueti controlli enzimatici ed elettrocardiografici di routine cadenzati ad intervalli temporali che venivano in concreto effettuati alle ore 08,12, 11,15 e 14,15 i quali risultavano, anch’essi, tutti negativi per eventi ischemici e, quindi, per l’infarto del miocardio.
Il predetto medico prescriveva, altresì, una radiografia toracica che veniva eseguita dal dott. E. F. alle ore 08,37 in clinostatismo in un’unica proiezione. Il predetto radiologo indicava, a fondamento della richiesta, la presenza di dolore toracico con dispnea e refertava, al di là dell’assenza di lesioni a focolaio, una salenza (rectius salienza) dell’arco aortico.
Il paziente G. veniva preso in carico dalla dott.ssa C. verso le ore 08,53 che subentrava, quale medico di turno del al dott. Co. il quale, come già sopra accennato, preliminari esami diagnostici ritenuti necessari.
Nel suo arco temporale di servizio (ovvero sino, all’incirca, la dott.ssa C. procedeva alle 08,53 alla somministrazione di 500 ml. di fisiologica (ovvero una flebo composta di acqua e sale); alle ore 11,15 dava corso al secondo giro enzimatico e al relativo elettrocardiogramma e alle ore 13,19 dava disposizioni affinchè si procedesse alla ripetizione di tali esami che venivano eseguiti dalla infermiera L. verso le ore 14,15.
Dal primo pomeriggio subentrava, a seguito del cambio – turno, il dott. D. che disponeva, alle ore 15,59, la somministrazione al paziente del farmaco “Ranidil Ev 10F” (protettivo dello stomaco).
Alle ore 16,29 il predetto medico visitava il paziente attestando quanto segue: “paziente vigile ed orientato, non deficit neurologici, azione cardiaca ritmica normofrequente, MV normotrasmesso, dolorabilità alla palpazione profonda in regione epigastrica. ECG: ritmo sinusale normofrequente”.
Veniva poi annotata, nel diario clinico, l’avvenuta somministrazione nel pomeriggio del farmaco Perfalgan EV 12 FL (analgesico ed antipirettico), sempre su disposizione medica.
Alle 18,42 veniva effettuata l’analisi dell’amilasi pancreatica che risultava negativa.
Alle 18.43 era somministrato il farmaco Mepral (farmaco per lo stomaco), sempre su disposizione medica.
Alle 19,10 veniva annotato sul diario clinico che il paziente lamentava una accentuazione della sintomatologia dolorosa localizzata in sede epigastrica e retro sternale e veniva, pertanto, condotto dal dott. D..
Alle 19,15, in occasione della consulenza cardiologica, veniva annotato che il paziente giungeva in PEA durante le manovre rianimatorie e che all’ECO emergeva un versamento pericardico circonferenziale di moderata entità ed una attività del cuore contrattile lenta e non efficace; al controllo ecografico effettuato durante la pericardio centesi si aveva fuoriuscita di una cospicua quantità di sangue rosso vivo.
Alle 19,30 il paziente perdeva conoscenza e presentava l’assenza di polso periferico e respiro in gasping; si iniziava quindi la pratica di rianimazione cardio – polmonare e si procedeva anche alla ventilazione meccanica.
Veniva eseguita una ecocardiografia che evidenziava un cospicuo versamento pericardico procedendo a pericardiocentesi, dapprima, in sottoxifoidea, quindi in parasternale sx, con drenaggio di cospicua quantità di sangue. Il versamento appariva rapidamente rifornito; si continuava così la rianimazione effettuando la infusione di 4.000 cc. di RL e di adrenalina 1 f. ogni 5 minuti.
Nonostante le procedure adottate, alle 20,00 il paziente risultava sistolico e, alle 20,15 ne veniva constatato il decesso per tamponamento cardiaco da verosimile rottura dell’arco aortico.
L’esito dell’esame autoptico confermava che la causa del decesso era da attribuire al tamponamento cardiaco conseguente ad una patologia dissecativa dell’aorta ascendente (tipo 2^ di De Beckey, tipo A di Stanford); veniva infatti riscontrata un’ampia lacerazione dell’arco aortico con la creazione di un doppio lume tra la regione sopravalvolare e l’emergenza del tronco brachiocefalico. Tutti i consulenti nominati dalle parti (pubblica accusa, imputati e parti civili) convenivano su tale causa della morte.
La decisione del Tribunale di Lucca
Il Tribunale di Lucca perveniva al convincimento, sulla base delle emergenze processuali, che la mancata tempestiva individuazione della diagnosi corretta era attribuibile alla condotta colposa degli imputati sottolineando che le emergenze processuali convenivano nel senso che il quadro clinico che si era andato delineando – sulla base degli elementi disponibili sin dalle ore 09.00 del mattino – imponeva la valutazione di altre opzioni terapeutiche che avrebbero permesso di rivelare l’effettiva esistenza della patologia da cui era affetto il G., risultata conclamata in serata dal volgere degli eventi.
L’inadeguatezza del giudizio clinico espresso dai medici del Pronto Soccorso si manifestava in modo sempre più evidente con il trascorrere del tempo, in rapporto alla concreta situazione in cui versava il paziente, tanto più a fronte dell’emergere dei dati clinici (tra cui gli esami enzimatici e gli esiti dei correlati elettrocardiogrammi, risultati negativi) che inducevano ad escludere le altre possibili cause della persistenza del dolore toracico.
Per converso, le risultanze della radiografia toracica effettuata subito dopo il ricovero in ospedale del G. che registrava una salienza dell’arco aortico (espressamente refertata) ed evidenziava chiaramente, dalla mera disamina delle immagini, un’alterazione dell’arco aortico e uno slargamento del mediastino, avrebbero dovuto dar luogo alla diagnosi differenziale di dissecazione dell’aorta, o quantomeno, imporre lo svolgimento di approfondimenti diagnostici con l’effettuazione di esami mirati, quali l’ecografia trans-toracica (eventualmente seguita da una ecografia trans-esofagea e un approfondimento TAC), e consigliarne l’immediato trasferimento in un apposito centro specializzato di cardiochirurgia.
Veniva così ravvisata, a carico di entrambi i sanitari, una condotta rimproverabile in termini di colpa consistita in negligenza, imprudenza ed inosservanza delle regole dell’arte medica per avere adottato una inspiegabile scelta attendista lasciando il paziente in balia di sè stesso sulla base di una iniziale ipotesi diagnostica che avrebbe dovuto, invece, necessariamente variare in considerazione dei risultati della radiografia toracica, dell’andamento degli esami enzimatici e dei correlati elettrocardiogrammi della persistenza della sintomatologia dolorosa manifestatasi, nel corso della mattinata, addirittura con uno svenimento.
Più in particolare, quanto alle singole posizioni individuali, il giudice di primo grado osservava che la dott.ssa C. non aveva nemmeno visitato il paziente durante il suo periodo di turno nonostante l’evidente delicatezza del caso e, peraltro, in un contesto lavorativo relativamente tranquillo, non essendo infatti emersa la presenza di un numero eccessivo di accessi al Pronto Soccorso tale da rendere inesigibile una condotta diversa. D’altra parte il dott. D., in servizio all’incirca dalle ore 14.00, visitava il G. solo alle ore 16,29 e nemmeno si preoccupava di operare alcuna rivalutazione del caso nemmeno alla luce dell’evoluzione della situazione, una volta completato, per intero, il giro enzimatico. Nella immediatezza del fatto il predetto medico aveva ammesso, dinanzi ai parenti della vittima, di non avere valutato gli esiti radiografici che avrebbero potuto correttamente orientarlo e di essersi, invece, fidato dell’operato della collega che l’aveva preceduto.
Così delineata la condotta addebitata ai medici, il giudice di primo grado riteneva processualmente certa, esclusa l’interferenza di fattori alternativi, la conclusione che la condotta omissiva era stata la condizione necessaria dell’evento con alto o elevato grado di credibilità razionale o probabilità logica in quanto il quadro morboso poteva essere risolto con un intervento chirurgico salvifico, essendo il G. relativamente giovane (di anni 49) e versando in condizioni generali buone. Si osservava che il rischio operatorio risultava molto basso secondo uno score predittivo fondato su dati scientifici (con percentuale di sopravvivenza valutata al 95%), considerando anche la circostanza che nella medesima area geografica vi erano centri ospedalieri specializzati di eccellenza, tra cui quelli di Massa e di Pisa.
La decisione della Corte di Appello di Firenze
La Corte di appello di Firenze, con la pronuncia resa in data 26 maggio 2017, in parziale riforma della sentenza di primo grado, concedeva agli imputati le attenuanti generiche e riduceva la pena a ciascuno degli appellanti a mesi sei di reclusione, con concessione del beneficio della non menzione della condanna nel certificato del casellario giudiziale.
I giudici di secondo grado puntualizzavano che, nel caso di specie, difettavano i requisiti sia per l’applicazione del D.L. 13 settembre 2012, n. 158, art. 3 convertito, con modificazioni, nella L. 8 novembre 2012, n. 189 che della causa di non punibilità introdotta dalla L. 8 marzo 2017, n. 24, art. 6, entrata in vigore in data 1 aprile 2017 e, dunque, nelle more del giudizio di appello.
Veniva, infatti, ribadita, a carico di entrambi i sanitari, la valutazione di gravità della condotta colposa sia in termini di negligenza, tenuto conto della rilevante omissione delle doverose prestazioni sanitarie in favore del paziente, che con riferimento all’imperizia per il mancato rispetto delle linee guida e delle best practises.
La Corte di Cassazione conferma la condanna
Secondo la Corte di Cassazione, nel caso in esame, la Corte di Appello ha fornito ampia spiegazione delle ragioni per le quali, a seguito dell’esame dei consulenti del pubblico ministero, della parte civile e della difesa, riteneva raggiunto il necessario grado di certezza in merito all’evolversi della patologia che ha condotto al decesso di G.R..
La Corte distrettuale ha infatti espressamente evidenziato, in coerenza alle emergenze probatorie, che il dolore localizzato al torace e alla sezione retrosternale ed irradiato al giugulo, al momento della sua improvvisa insorgenza, era talmente intenso che il medico di urgenza chiamato a casa provvide subito a somministrare al G. una dose di analgesico (Flectadol 500 cc.) e ciò nonostante, al suo arrivo in ospedale, tale spasimo venne classificato con il punteggio 7, laddove gli stessi ricorrenti, nei motivi di appello, ammettevano che tale valore stava a significare un dolore comunque forte (laddove il punteggio 8 è qualificato come horrible e quelli 9 e 10 in termini di worse, secondo la scala del c.d. chest pain score).
La radiografia effettuata alle ore 08,37 indicava, tra le ragioni poste a fondamento di essa, il grave dolore toracico con dispnea.
I giudici di merito, nel ricostruire scrupolosamente la sequenza degli avvenimenti, hanno ritenuto comprovato che il dolore era persistito per tutta la giornata, alla stregua delle concordi dichiarazioni rese dai familiari del G. ritenute attendibili, da cui risultava che il predetto aveva continuato ad accusare, un forte dolore al petto e sullo sterno, e si protraevano i formicolii al braccio destro. La moglie del G. aveva, tra l’altro, riferito di avere da lui appreso che ad un certo punto, nel corso della mattinata, era svenuto e che si era risvegliato sulla lettiga a testa in giù. Intorno alle ore 18,30 la persona offesa appariva molto sofferente, il suo colorito era quasi giallo, era smanioso e diceva di sentirsi molto male ed aveva manifestato l’intenzione di recarsi alla struttura OPA di (OMISSIS) nonostante che i medici del (OMISSIS) gli avessero detto che era loro intenzione dimetterlo.
Tale ricostruzione fattuale si pone, del resto, in linea con le pur stringate annotazioni contenute nella cartella ospedaliera e trova, poi, piena conferma nel decorso infausto del quadro clinico.
Risulta infatti che alle ore 15,59 veniva somministrato al paziente il farmaco “Ranidil” (protettivo dello stomaco), evidentemente in ragione della persistenza della dolorabilità a livello gastrico. Nel corso della visita eseguita alle ore 16,29 il dott. D. constatava la dolorabilità alla palpazione profonda in regione epigastrica. Nel pomeriggio si procedeva alla somministrazione dei farmaci Perfalgan (analgesico ed antipirettico), e Mepral (medicinale per lo stomaco), sempre su disposizione medica.
Alle ore 19,10 veniva annotato sul diario clinico che il paziente lamentava una accentuazione della sintomatologia dolorosa localizzata in sede epigastrica e retro sternale e, dunque, l’aumentare di un sintomo evidentemente già in precedenza percepito, tanto da rendere necessaria una visita da parte del dott. D..
Ed ancora i giudici di secondo grado, osservavano che le tabelle contenute nelle linee – guida davano descrizioni molto diverse del dolore derivante dalla dissecazione aortica, indicandolo come lancinante o anche solo come intenso e migrante, così come quello avvertito dal G. che, effettivamente, si era spostato anche allo stomaco e, infine, al braccio come riferito, oltre che dai suoi familiari, anche dalla teste De., altra paziente ricoverata al pronto Soccorso. Lo stesso consulente della difesa, dott. B., riconosceva che si trattava di un dolore sospetto che rendeva opportuni degli approfondimenti laddove, nella relazione scritta, affermava che i due sanitari avevano rispettato il protocollo previsto per il sospetto infarto al miocardio ma che questo non era adeguato perchè avrebbero dovuto prevedere anche la effettuazione di un’ecografia o di una TAC toracica, stante il persistere di dolore toracico atipico o sospetto.
La Corte distrettuale soggiungeva che durante il ricovero non era stata effettuata alcuna plausibile valutazione di detto sintomo che veniva del tutto trascurato, fatta salva la somministrazione di qualche farmaco per lo stomaco, senza neppure procedere ad altri esami clinici mirati per accertare se il dolore si riferisse effettivamente ad una sofferenza gastrica (ad eccezione dell’esame dell’amilasi pancreatica eseguita solo alle ore 18,42).
D’altra parte, di tali sintomi non è stata data alcuna valida giustificazione alternativa da parte dei ricorrenti che si sono limitati a escludere che si trattasse di sintomi di dissezione aortica, senza indicare a quale diversa patologia essi potessero essere associati nè risulta, al riguardo, fornita alcuna altra plausibile spiegazione. Del resto, si trattava di un soggetto ancora giovane e nessuno dei consulenti ha fatto alcun cenno al riscontro, in sede di autopsia, di altre eventuali gravi patologie idonee, in ipotesi, a causarne il decesso. Si perveniva così correttamente alla conclusione che i medici non avevano fornito elementi concreti idonei ad inficiare il convincimento espresso nella sentenza impugnata.
I giudici di merito hanno escluso la sussistenza di un aneurisma aortico, inteso come rigonfiamento di dimensioni rilevanti e preesistente alla dissecazione mentre è stata ritenuta comprovata, in aderenza alle risultanze delle consulenze del Pubblico Ministero e della parte civile, una dilatazione dell’aorta perfettamente compatibile con le risultanze della radiografia e con gli esiti clinici del decesso.
I giudici di merito, le cui sentenze si integrano trattandosi di doppia conforme, hanno ancorato i loro convincimenti a dati scientifici pienamente confermati anche dall’esito dell’esame autoptico da cui è emersa l’ampia lacerazione dell’arco aortico con creazione di un doppio lume tra la regione sopravalvolare e l’emergenza del tronco brachicefalico. E’ stato accertato che il segmento compreso dall’emergenza cardiaca distava proprio pochi centimetri dall’arco prossimale dell’arco aortico.
Risulta pacifico che il radiologo dell’ospedale dott. E., nella radiografia effettuata alle ore 08,37, refertava la presenza di una salenza dell’arco aortico (rectius salienza, dell’arco aortico) che, pur non essendo di per sè un sintomo tipico della dissecazione aortica, attestava l’esistenza di una sporgenza, ovvero di una prominenza che, come correttamente sottolineato, avrebbe dovuto imporre un approfondimento con una nuova radiografia o con esami mirati, come un’ecografia o una TAC, tenuto conto della complessiva situazione in cui versava il G..
Il predetto responso era, infatti, chiaramente esplicativo di una alterazione in atto all’apparato cardiovascolare che avrebbe imposto i dovuti approfondimenti.
Secondo la Corte distrettuale, tali considerazioni sono peraltro avvalorate anche dalla lettura della consulenza tecnica del dott. F., specialista in radiologia nominato dalla difesa degli appellanti nel giudizio di secondo grado, il quale, nella relazione scritta allegata ai motivi di impugnazione, riferiva che la salienza, pur non essendo un segno di dissezione aortica di tipo A (in quanto questa è, per definizione, limitata all’aorta ascendente e quindi non coinvolge l’arco), è legata ad una eccessiva sporgenza dell’arco aortico sulla marginale sinistra mediastinica (1 arco) in rapporto all’allungamento e alla tortuosità dell’aorta toracica che si verifica con l’aumentare dell’età, tanto da essere considerata, dai clinici, un segno di artereosclerosi e/o di ipertensione sistemica che non comporta mai un allarme quoad vitam. Sulla base di tali premesse, si osservava, con argomentazioni persuasive, che tale riscontrata alterazione meritava approfondimenti clinici, proprio tenendo conto dell’età relativamente giovane del G. (anni 49) e della sintomatologia riscontrata.
Si sottolineava, inoltre, che l’altra anomalia, riscontrabile chiaramente dalla mera lettura delle immagini radiografiche (adempimento quest’ultimo cui erano, senz’altro, tenuti anche i medici del Pronto Soccorso), ovvero lo slargamento del mediastino, avrebbe dovuto mettere in allarme i sanitari del Pronto Soccorso perchè anch’essa chiaramente sintomatica di una alterazione morbosa.
Sul punto i giudici di secondo grado evidenziavano che lo stesso dott. Gori, consulente della difesa, aveva ammesso che l’immagine radiografica era suggestiva di una condizione patologica. Parimenti, l’altro consulente della difesa, dott. Ba., nella sua relazione ammetteva che la radiografia mostrava un contorno chiaramente debordante verso destra, in modo da modificare significativamente il profilo dell’ombra cardiaca riconoscendo, nel corso del suo esame nel dibattimento di primo grado, che lo slargamento del mediastino inferiore poteva essere riferibile ad una dilatazione dell’aorta ascendente e, comunque, ad una sua anomalia e che, in via teorica, quella radiografia doveva indurre ad ulteriori approfondimenti.
I giudici di merito soggiungevano, inoltre, che, pur risultando documentalmente comprovata una lieve anemizzazione del paziente, a tale sintomo non era stata prestata alcuna attenzione, risultando omessa alcuna spiegazione circa la sua irrilevanza o il collegamento con altre patologie.
Tale sottovalutazione e la conseguente mancanza di qualunque esame successivo a quello disposto dal dott. Co. al momento dell’ingresso del G. al Pronto Soccorso, era rimproverabile alla C. e al D.. Nel descritto contesto veniva giustamente ritenuta suggestiva la conclusione cui era pervenuto il consulente di parte dott. Pi. il quale sosteneva che i valori anemici non erano indicativi della patologia in corso, posto che, a tal fine, era stato eseguito un solo prelievo di sangue (quello delle ore 08.12) e, dunque, non era possibile conoscerne il processo evolutivo nell’arco della giornata.
Il principio: il medico deve formulare una “diagnosi differenziale”
La decisione si colloca nell’alveo del costante dictum della Suprema Corte (Sez. 5, n. 52411 del 04/07/2014, Rv. 261363) che, in tema di responsabilità medica, ha affermato che, nel caso in cui il sanitario si trova di fronte ad una sintomatologia idonea a formulare una diagnosi differenziale, la condotta è colposa quando non si proceda alla stessa, e ci si mantenga, invece, nell’erronea posizione diagnostica iniziale; ciò, sia nelle situazioni in cui la necessità della diagnosi differenziale è già in atto, sia laddove è prospettabile che vi si debba ricorrere nell’immediato futuro a seguito di una prevedibile modificazione del quadro o della significatività del perdurare della situazione già esistente (fattispecie in cui la Corte ha ritenuto immune da censure la decisione impugnata per aver giudicato configurabile la responsabilità del ginecologo, che non aveva eseguito un monitoraggio intermittente sulle condizioni del feto, nonostante dai tracciati emergessero segni di sofferenza fetale ai quali era seguita, come sviluppo prevedibile, la morte del nascituro).
Ed ancora, è stato affermato (Sez. 4, n. 52411 del 04/07/2014 Rv. 261363; Sez. 4, n. 13542 del 14/02/2013) che l’errore diagnostico si configura non solo quando, in presenza di uno o più sintomi di una malattia, non si riesca ad inquadrare il caso clinico in una patologia nota alla scienza o si addivenga a un inquadramento erroneo ma anche quando si ometta dì eseguire o disporre controlli e accertamenti doverosi ai fini di una corretta formulazione di una diagnosi in modo da individuare le terapie più confacenti al caso.
Inoltre, è stato chiarito che, in tema di responsabilità del sanitario per condotte omissive in fase diagnostica, ai fini dell’accertamento della sussistenza del nesso di casualità occorre far ricorso ad un giudizio controffattuale meramente ipotetico al fine di accertare, dando per verificato il comportamento invece omesso, se quest’ultimo avrebbe, con un altro grado di probabilità logica, impedito o significativamente ritardato il verificarsi dell’evento o comunque ridotto l’intensità lesiva dello stesso (Sez. F., n. 41158 del 25/08/2015, Rv. 264883).
Il giudizio di rimproverabilità formulato nella sentenza impugnata è stato correttamente calibrato anche tenendo conto della peculiarità della posizione di garanzia rivestita dal medico del pronto soccorso che va delineata tenendo conto delle specifiche competenze che sono proprie della specifica branca della medicina d’emergenza o di urgenza (cfr. Sez. 4, n. 24372 dell’11/04/2018, Sorano).
In tale ambito rientrano senz’altro l’esecuzione degli accertamenti clinici circa le cure da prestare e l’individuazione delle prestazioni specialistiche eventualmente necessarie. E’ stata così riconosciuta la responsabilità del medico del pronto soccorso per il decesso del paziente per non avere disposto gli idonei accertamenti clinici (Sez. 4, n. 18573 del 14/02/2013, Rv. 25633801) o per non avere posto una corretta diagnosi in modo da indirizzare il paziente in reparto o luogo di cura specialistico (Sez. 4, n. 29889 del 05/04/2013, Rv.25707301).
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