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Riportiamo quanto recentemente deciso dalla Cassazione penale sez. IV, con la sentenza n. 8464 del 17/02/2022.

Un medico è stato condannato perchè ha dimesso dal Pronto Soccorso un paziente con sintomi che, se fossero stati adeguatamente monitorati, mostravano un infarto in corso.

Infatti, a poche ore dalle dimissioni, il paziente moriva!

Il medico è stato condannato per omicidio colposo e i familiari del paziente risarciti per perdita del rapporto parentale.

 

 

  • Il caso: paziente con sintomi di infarto viene dimesso e muore
  • Il Tribunale condanna il medico: doveva approfondire la diagnosi
  • La Corte di Appello assolve il medico: il paziente ha firmato per le dimissioni
  • Il ruolo del medico di Pronto Soccorso
  • La decisione della Corte di Cassazione: il medico è stato negligente
  • Il risarcimento dei danni ai familiari del paziente deceduto

 

 

Il caso: paziente con sintomi di infarto viene dimesso e muore

Una dottoressa di Pronto Soccorso era imputata del delitto di cui all’art. 589 c.p. (omicidio colposo) perché, in qualità di sanitario di turno presso il pronto soccorso dell’ospedale (OMISSIS) nel giorno (OMISSIS), in cui aveva prestato assistenza a M.C., ivi ricoverato in seguito a dolore alla bocca dello stomaco e intensa sintomatologia dolorosa a carico del braccio sinistro, per colpa consistita in negligenza, imprudenza e imperizia e violazione di legge ne aveva cagionato la morte.

In particolare, pur a fronte di un quadro anamnestico patito dal paziente e denunciato dai familiari con specifico riferimento alla sofferta cardiopatia ipertensiva dilatativa e terapia farmacologica, dopo averlo sottoposto a un prelievo di sangue per il dosaggio degli enzimi cardiaci e ad un esame elettrocardiografico, lo aveva dimesso con diagnosi di epigastralgia, facendo firmare al paziente le dimissioni omettendo di richiedere consulenza cardiologica, di operare un corretto e adeguato intervento professionale e di effettuare un corretto e costante monitoraggio clinico strumentale, non seguendo adeguatamente le linee-guida previste per le sindromi coronariche acute, che avrebbero imposto di disporre un tempestivo approfondimento diagnostico mediante ulteriori ripetuti prelievi di enzimi ematici, che avrebbero consentito di anticipare la diagnosi al trattamento, dal momento che il paziente era deceduto per arresto cardiaco da miocardiopatia cronica ipertrofica.

 

Il Tribunale condanna il medico: doveva approfondire la diagnosi

Il Tribunale di Benevento aveva così ricostruito il fatto: M.C., già in cura per una cardiopatia ipertensiva in fase dilatativa, si era recato il (OMISSIS) al pronto soccorso dell’ospedale (OMISSIS) a causa di una sintomatologia dolorosa alla bocca dello stomaco; era stato sottoposto a esame elettrocardiografico e ad esami di laboratorio, tra i quali il dosaggio della troponina; l’esito degli accertamenti aveva indicato valori nella norma; il paziente aveva firmato l’assunzione di responsabilità ad essere dimesso contro la volontà del sanitario, che aveva diagnosticato epigastralgia; al mattino seguente, M.C. era stato rinvenuto deceduto a letto dalla figlia N..

Il Tribunale di Benevento, ritenendo provato che M.C. fosse deceduto, secondo quanto accertato dal consulente del pubblico ministero, per arresto cardiaco da danno ischemico cronico e da miocardiopatia cronica ipertrofica, ha fondato il giudizio di colpevolezza dell’imputata sulla grave negligenza alla stessa ascrivibile. In particolare, il giudice di primo grado ha ritenuto che un paziente cardiopatico che lamenti una sintomatologia come quella del M. avrebbe dovuto essere tenuto sotto controllo in ambiente ospedaliero anche in caso di negatività del tracciato dell’elettrocardiogramma e degli esami enzimatici in quanto vi è una chiara raccomandazione di tenere in osservazione tali pazienti per un intervallo di tempo che va dalle 6 alle 12 ore, verificando a intervalli regolari la presenza di enzimi. Anche a voler ritenere che la patologia in atto non rientrasse nelle nozioni del medico di pronto soccorso, quest’ultimo, prima di assumere qualsiasi decisione in ordine alle dimissioni, avrebbe dovuto rivolgersi per una consulenza allo specialista cardiologo.

Dagli esami fatti eseguire dall’imputata, il giudice ha desunto che la stessa avesse posto la diagnosi differenziale, tuttavia non procedendo agli approfondimenti che la scienza medica le avrebbe imposto in presenza della sintomatologia lamentata dal M.; sintomatologia non univoca, come dimostrato dagli esami di laboratorio richiesti dalla stessa imputata.

Il giudice ha anche ritenuto provato il rifiuto del ricovero da parte del paziente, attribuendo tuttavia l’allontanamento del M. dal nosocomio ad un’informazione erronea e incompleta da parte del medico, che non aveva comunicato al paziente una diagnosi specifica, limitandosi a una generica e sommaria rassicurazione, invitando il paziente a mangiare riso in bianco e ponendo diagnosi conclusiva di epigastralgia all’atto delle dimissioni.

 

La Corte di Appello assolve il medico: il paziente ha firmato per le dimissioni

La Corte di appello di Napoli ha riformato la pronuncia di condanna emessa dal Tribunale, assolvendo l’imputata con formula “perché il fatto non sussiste”.

La corte territoriale ha ritenuto che la scelta del paziente di allontanarsi volontariamente contro il parere dei sanitari, nonostante le raccomandazioni da parte dell’imputata circa la necessità di sottoporsi a ulteriori esami per escludere definitivamente patologie più serie, avesse di fatto interrotto l’iter diagnostico che, se fosse stato proseguito secondo i protocolli e le linee-guida, quindi con la ripetizione degli esami ematici o mediante un consulto con un cardiologo, avrebbe con ogni probabilità consentito di gestire il rischio di quella condizione così drammatica ed estrema da determinare di lì a poche ore la morte del paziente.

Punto nodale della decisione assolutoria è rinvenibile nella lettura del verbale di pronto soccorso, avendo i giudici evidenziato che da tale documento fosse emerso che l’imputata, stante il rifiuto del paziente di ricoverarsi, aveva “provveduto ad informare il paziente in merito alle complicanze possibili”.

La è proposta di ricovero, secondo la corte, doveva interpretarsi come invito all’approfondimento diagnostico, indicativo della condotta diligente del sanitario, laddove la sentenza di primo grado non aveva chiarito da quali elementi il giudice avesse tratto il convincimento dell’inadeguatezza dell’informazione data al paziente né per quali ragioni avesse ritenuto che tale carenza informativa avesse inciso sulla scelta del paziente di rifiutare il proposto ricovero.

 

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Il ruolo del medico di Pronto Soccorso

A questo punto la decisione spetta alla Corte di Cassazione, a cui ricorrono i familiari del paziente deceduto.

Vediamo intanto come la Corte di Cassazione descrive il ruolo del medico di Pronto Soccorso.

Il contenuto dell’obbligo di garanzia gravante sul medico di Pronto Soccorso può in generale ritenersi definito dalle specifiche competenze che sono proprie di quella branca della medicina che si definisce medicina d’emergenza o d’urgenza: in tale ambito rientrano l’esecuzione di taluni accertamenti clinici, la decisione circa le cure da prestare e l’individuazione delle prestazioni specialistiche eventualmente necessarie. Correlata a tali doveri può ritenersi la decisione inerente al ricovero del paziente e alla scelta del reparto a ciò idoneo, mentre l’attribuzione della priorità d’intervento, detta triage ospedaliero, è procedura infermieristica.

Inoltre, a fronte della possibilità di una diagnosi differenziale non ancora risolta, costituisce comportamento diligente del medico compiere gli approfondimenti clinici necessari per accertare quale sia l’effettiva patologia che affligge il paziente al fine di adeguare le terapie in corso alla diagnosi.

Attinente al caso in esame è la questione, strettamente connessa al comportamento esigibile dal sanitario in caso di dubbio diagnostico, dello scambio di informazioni medico-paziente. In questa determinata fase del rapporto professionale, il sanitario ha, da un lato, la necessità di acquisire informazioni dal paziente e, dall’altro, il dovere di fornirgli informazioni. Si tratta, tuttavia, di informazioni di natura ben diversa, per contenuto e rilevanza giuridica, da quelle funzionali ad ottenere il consenso informato del paziente al trattamento terapeutico (Sez. U, n. 2437 del 18/12/2008, dep. 2009, Giulini, Rv. 241752). Queste ultime riferiscono i possibili rischi del trattamento terapeutico e hanno la funzione giuridica di presupposto di operatività della scriminante del consenso dell’avente diritto rispetto all’intervento medico-chirurgico. Le prime, invece, hanno natura cautelare in quanto veicolano nel percorso diagnostico dati attraverso i quali il medico ha la concreta possibilità di influenzare il corso degli eventi, ancorché il medico non abbia pieni poteri sulle scelte del paziente.

L’informazione fornita in tale contesto, rende evidente il potere del medico di attivare, anche in parte, meccanismi idonei a evitare il verificarsi di eventi lesivi e, sotto un profilo squisitamente giuridico, la regola di diligenza professionale secondo la quale, per prevenire il rischio che il paziente adotti scelte o ponga in essere condotte non congrue in relazione alle sue condizioni di salute, il medico è tenuto a comunicare una diagnosi certa e, fino a quando ciò non sia possibile, astenersi dal fornire informazioni incomplete, ambivalenti, perplesse.

 

La decisione della Corte di Cassazione: il medico è stato negligente

La Corte di Cassazione parte da questo dato: sia il Tribunale che la Corte di Appello hanno ritenuto che il medico di pronto soccorso Dott.ssa P. avesse inizialmente eseguito in modo corretto gli accertamenti dovuti su un paziente cardiopatico con sintomatologia di dolore alla bocca dello stomaco e dolore sternale, richiedendo esami di laboratorio per dosare i marcatori di danno cardiaco ed elettrocardiogramma.

Tuttavia, secondo la Corte di Cassazione, la Corte di Appello ha errato nell’interpretazione dei dati di fatto.

In primo luogo, sebbene sia stata indicata come corretta la condotta del sanitario che aveva fatto eseguire gli accertamenti per dosare i marcatori di danno cardiaco su paziente cardiopatico con sintomatologia di dolore alla bocca dello stomaco e dolore sternale, si è poi affermato, con ragionamento manifestamente illogico, che le linee-guida che impongono di ripetere il prelievo di sangue nell’arco di 3 e 6 ore, al fine di monitorare la cosiddetta curva enzimatica, concernono il caso in cui vi sia sospetto di sindrome coronarica acuta o di infarto miocardico acuto. Tale affermazione presuppone, in contrasto con le premesse, che le medesime linee-guida non fossero pertinenti al caso in esame, relativo a paziente pacificamente cardiopatico, affetto da cardiopatia ipertensiva in fase dilatativa con sintomi di dolore alla bocca dello stomaco e dolore sternale, poi deceduto per arresto cardiaco da danno ischemico cronico e da miocardiopatia cronica ipertrofica. L’affermazione risulta, peraltro, in contraddizione con la valorizzazione delle deposizioni testimoniali secondo le quali la Dott.ssa P. avrebbe reiteratamente insistito con il paziente affinché rimanesse in ospedale e proseguisse gli accertamenti. La valorizzazione di tale condotta, quale elemento indicatore del comportamento diligente del medico presuppone, infatti, proprio la pertinenza di quelle raccomandazioni secondo le quali gli esami inerenti alla cosiddetta curva enzimatica, per essere attendibili, devono essere ripetuti almeno due volte a distanza di tre ore.

 

La Corte di Cassazione ritiene che la sentenza impugnata sia contraddittoria anche nella parte in cui, nonostante in un primo passo siano state indicate le ragioni per le quali “non convince il tentativo di sminuire la credibilità delle parti civili e l’attendibilità delle loro propalazioni” anche sul rilievo che l’interesse della parte civile non incide di per sé su la credibilità di un teste e considerando che “nulla nell’istruttoria ha consentito di ipotizzare una volontà mendace o calunniosa delle figlie della vittima nei riguardi dell’imputata e che costoro hanno reso dichiarazioni lineari e tra loro coerenti”, e nonostante in un altro passo si sia affermato che la dichiarazione dell’imputata di non aver ricevuto alcuna documentazione medica contrastasse con la prova logica che rendeva “del tutto ragionevole che una delle due sorelle sia tornata a casa per prendere la documentazione medica e mostrarla al sanitario di turno”, in altro passo è stata attribuita maggiore coerenza e affidabilità alle dichiarazioni dei testimoni della difesa “soggetti imparziali in quanto non portatori di un interesse personale rispetto alla definizione del giudizio”, negando credibilità alla versione delle figlie del paziente in merito alle informazioni fornite dall’imputata prima delle dimissioni.

 

 

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Il risarcimento dei danni ai familiari del paziente deceduto

La Corte di Cassazione ha dato ragione ai parenti del paziente morto, che avranno a questo punto diritto di chiedere all’ospedale e al medico il risarcimento di tutti i danni che hanno subito per perdita del loro congiunto.

Questa voce di danno si chiama per appunto “perdita del rapporto parentale” ed è volta a risarcire la sofferenza che i familiari sono costretti a sopportare per aver tragicamente visto morire il loro caro.

Se anche tu hai subito la perdita di un tuo familiare per responsabilità medico-sanitaria, puoi rivolgerti a noi gratuitamente per denunciare il medico e chiedere il risarcimento di tutti i danni che hai subito.

Nel processo penale potrai costituirti parte civile ed ottenere il risarcimento dei danni morali da reato.

Contattaci per un parere gratuito da parte dei nostri avvocati e per un parere medico da parte dei nostri consulenti!

 

 

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