Riportiamo e commentiamo la sentenza n. 1100 del 9 febbraio 2022 del Tribunale Civile di Milano.
Viene trattato il caso di una paziente a cui viene erroneamente diagnosticata una malattia meno grave (minicarcinoma) di quella effettivamente avuta (carcinoma), con conseguente prescrizione di una terapia diversa e meno efficace rispetto a quella che avrebbe potuto salvarla o farla vivere più a lungo.
Dopo il decesso della paziente i suoi familiari ottengono il risarcimento dei danni per perdita di chance e per perdita del rapporto parentale.
Il caso: alla paziente viene diagnosticato un microcarcinoma, ma non un carcinoma!
Con atto di citazione ritualmente notificato, G. B., in proprio e nella qualità di rappresentante della figlia minore I. B. ha convenuto in giudizio davanti al Tribunale di Milano l’Istituto (omissis) ed il dott. G. R. per accertare la responsabilità contrattuale e/o extracontrattuale dei convenuti per l’erroneo ed inadeguato trattamento diagnostico e terapeutico del carcinoma mammario che aveva colpito nel 2008 B. E., rispettivamente moglie e madre degli attori, a causa del quale era derivata la morte nel 2014, e per ottenere il risarcimento dei danni di natura patrimoniale e non patrimoniale iure hereditatis e iure proprio.
Gli attori hanno dedotto che B. E., dopo la scoperta di un nodulo alla mammella destra, nel dicembre 2008 si era rivolta all’Istituto per effettuare una serie di indagini ed accertamenti.
All’esito di visita senologica e degli accertamenti clinici disposti la attrice in data 28.1.2009 era stata sottoposta ad intervento di “quadrantectomia radioguidata retroareolare e supero esterna mammella destra con biopsia linfonodo sentinella ascellare destro e rimodellamento plastico“.
Gli esiti dell’esame istologico del 5.2.2009, firmato dal dott. R., all’epoca condirettore della divisione di anatomia patologica e medicina di laboratorio dell’Istituto, avevano posto la diagnosi di carcinoma duttale microinvasivo scarsamente differenziato e gli oncologici avevano quindi redatto programma terapeutico non prevedente alcun trattamento precauzionale sistemico ma solo la radioterapia complementare.
Nel mese di luglio 2012, a seguito di un valore del marcatore neoplastico C15-3 cinque volte superiore alla norma, B. E. si era sottoposta a visita ambulatoriale dal dott. L. presso l’Istituto e ad indagini strumentali che rilevavano la presenza di numerose lesioni metastatiche a livello polmonare, epatico e scheletrico.
Data la estrema gravità della situazione, la paziente si era sottoposta a sette cicli di chemioterapia tra agosto 2012 e marzo 2013, a radioterapia a livello encefalico nel settembre 2012, ad ulteriori trattamenti chemioterapici da marzo ad agosto 2013 e di nuovo da gennaio a marzo 2014 fino ad un ricovero a maggio 2014 ed al decesso nel mese di giugno 2014.
Secondo la prospettazione attorea, tale iter clinico ed il successivo decesso di B. E. erano dovuti ad una condotta colposa dei convenuti.
L’accusa dei familiari: l’esame istologico mostrava che era un carcinoma
In particolare era stato riscontrato dai periti di parte incaricati dagli attori un erroneo inquadramento della malattia in sede di referto istopatologico, che, diversamente da quanto stabilito in tale referto, era un carcinoma duttale infiltrante ad altra aggressività biologica e che avrebbe quindi richiesto un trattamento terapeutico diverso, costituito da chemioterapia e terapia biologica, in aggiunta alla radioterapia, la cui esecuzione avrebbe comportato circa il 97% delle percentuali di sopravvivenza.
Inoltre, si è rilevata a carico dell’Istituto una ulteriore negligenza derivante dalla sottovalutazione da parte del personale medico del dato del costante aumento del marcatore tumorale CA 15-3 che già nel febbraio 2012 aveva raggiunto il limite massimo previsto dai protocolli medici, così permettendo al tumore di diffondersi per ulteriori sei mesi.
Gli attori hanno quindi chiesto l’accertamento della responsabilità contrattuale di entrambi i convenuti, o in subordine ex art. 2043 cod.civ., in relazione al danno costituito dalla morte di B. E., ed in subordine, per perdita di chance di sopravvivenza, richiedendo il ristoro delle seguenti voci: a) danno biologico temporaneo subito da B. E. per il periodo delle cure da agosto 2012 a giugno 2014; b) danno da sofferenza subito da B. E. per avere avuto piena coscienza dell’imminenza della sua morte e della impossibilità di guarire a causa dell’errore medico compiuto; c) danno non patrimoniale per la perdita del rapporto parentale subito da entrambi gli attori; d) danno alla salute di natura psichica subito da entrambi gli attori derivante dal fatto illecito e dalla perdita del loro congiunto; e) danno patrimoniale da lucro cessante per la perdita della quota del reddito che B. E. destinava al consorzio familiare; f) danno patrimoniale relativo sia alle spese mediche sostenute da B. E. per le cure prestate, sia alle spese sostenute da G. B. per le spese di psicoterapia e mediche sostenute.
Una diagnosi corretta avrebbe consentito la giusta terapia
In base ai Consulenti incaricati dal Tribunale, il giudice ha ritenuto che è configurabile una condotta colposa in capo ai convenuti Istituto ed al prof. R., che ha firmato il referto dell’esame istologico, per la erronea lettura anatomopatologica effettuata nel corso dell’esame istologico del 5 febbraio 2009 che ha comportato una erronea diagnosi della malattia di B. E., in termini di microcarcinoma scarsamente differenziato anziché di carcinoma duttale infiltrante in stadio pT1bN0 ad alta aggressività biologica.
Va invece escluso, sulla base delle risultanze peritali, che vi sia un errore nella gestione terapeutica della malattia a seguito dell’errata diagnosi, così come dopo la comparsa della recidiva e la scoperta delle plurime lesioni metastatiche.
Il nesso causale tra la condotta e l’evento di danno
Con riferimento alla specifica vicenda oggetto del giudizio, in base alle risultanze istruttorie vengono in rilievo due temi di indagine:
1) se sia stata raggiunta la prova della sussistenza del nesso di causalità tra la condotta imperita e negligente ascritta ai convenuti e l’evento dannoso; 2) quale sia l’evento dannoso ascrivibile sul piano causale al fatto illecito, e cioè se si tratti dell’evento morte della paziente, in quanto la corretta diagnosi avrebbe consentito la guarigione della paziente, se si tratti della riduzione della durata della vita della paziente, in quanto la corretta diagnosi avrebbe comportato una maggiore durata della vita, o ancora se venga in rilievo come evento una mera perdita della possibilità di guarigione o di arrestare la progressione della patologia preesistente.
Partendo dalla prima questione, vanno fatte alcune precisazioni sul criterio da utilizzare per l’accertamento del nesso causale, fondate sull’esame della giurisprudenza della Corte di Cassazione.
E’ ormai principio consolidato quello secondo cui, in tema di responsabilità civile, la verifica del nesso causale tra condotta (commissiva e/o omissiva) e fatto dannoso deve compiersi in base alla regola probatoria del “più probabile che non” (Cass., S.U., 11 gennaio 2008, n. 576, Cass.civ. ord. 20 giugno 2019 n. 16581).
Come più volte chiarito dalla stessa Corte di legittimità, l’applicazione di tale criterio non si esaurisce nella verifica del coefficiente di probabilità statistica espresso dalla legge scientifica di copertura, e quindi al mero rilievo della probabilità quantitativa della frequenza di un determinato evento, ma richiede che il giudice ne accerti la validità nel caso concreto, secondo il criterio della probabilità logica, che tiene conto delle circostanze di fatto e dell’evidenza probatoria del singolo caso, valorizzando eventuali altri elementi di conferma e considerando la eventuale esclusione di altre possibili cause alternative.
Inoltre, va precisato che, in tutte le ipotesi in cui venga in rilievo una condotta omissiva, la verifica da compiere si concreta nell’accertamento della probabilità positiva o negativa del conseguimento del risultato idoneo ad evitare il rischio specifico di danno, riconosciuta alla condotta omessa, da compiersi mediante un giudizio controfattuale, che pone al posto dell’omissione il comportamento dovuto (cfr. da ultimo, Cass.civ., sez. 3, 27 luglio 2021 n. 21530 e Cass.civ., ord. 30 giugno 2021 n. 18584).
Sul punto, la citata pronuncia n. 21530/2021 ha in particolare evidenziato che la affermazione del nesso di causalità materiale non è necessariamente predicabile secondo la preponderanza dell’evidenza legata al criterio del “50% + 1” ma può ricorrere anche in situazioni di probabilità minori, tenuto conto delle acquisizioni probatorie, sia in positivo, che in negativo, ovvero come assenza di fattori alternativi plausibili.
Nel caso in esame, si osserva in primo luogo che si verte in tema di causalità omissiva, in quanto, secondo le stesse allegazioni degli attori, il danno deriva dalla omissione di condotte terapeutiche e segnatamente dal fatto che, a seguito dell’errore diagnostico, non si è proceduto dopo l’intervento chirurgico a trattare la paziente con chemioterapia e trastuzumab.
Ciò posto, nell’elaborato peritale si è affermato che, in caso di condotta dei sanitari conforme all’agente modello, e quindi di corretta diagnosi di carcinoma duttale infiltrante in stadio pT1bN0, secondo le linee guida dell’epoca (AIOM 2009), la paziente avrebbe dovuto essere trattata con chemioterapia con trastuzumab adiuvante, anche in considerazione della presenza di fattori prognostici dichiaratamente negativi (stato recettoriale, Grading, Ki-67 ed espressione di Her 2), trattamento che avrebbe ridotto le possibilità di ricaduta della malattia (cfr. pag. 23 e 25 dell’elaborato).
In particolare, come evidenziato dai CTU, la non corretta lettura anatomopatologica ha comportato un aumentato rischio di evoluzione metastatica della malattia e quindi un incremento del rischio di giungere al decesso.
Nello specifico, in base all’analisi dei dati di sopravvivenza, si è rilevato che per una paziente di 43 anni con neoplasia mammaria delle caratteristiche di quelle riscontrate nella paziente, la sopravvivenza a 10 anni è del 78% in caso di esclusivo trattamento chirurgico, mentre in caso di trattamento chemioterapico con trastuzumab aumenta al 88%; quindi la probabilità di sopravvivenza è del 10% in più rispetto a chi ha ricevuto un trattamento solo chirurgico.
Occorre poi precisare che, come evidenziato dai CTU in risposta alle osservazioni dei CTP in ordine alla opportunità di valutare il dato della sopravvivenza a cinque anni, la valutazione della sopravvivenza a 10 anni, e quindi a lungo termine, deriva dal fatto che si è in presenza di un paziente potenzialmente guaribile con corretti trattamenti terapeutici.
Ne deriva che il riferimento alla possibilità di sopravvivenza a 10 anni va inteso come riferimento alla possibilità di guarigione, dal momento che tale lasso temporale indica quel limite superato il quale il paziente oncologico matura una aspettativa di vita equivalente ad un soggetto che non ha mai sviluppato una malattia tumorale.
La paziente ha perso la “chance” di vivere meglio e più a lungo
Orbene, ritiene il Tribunale, all’esito dell’esame delle risultanze della consulenza tecnica, che sussiste la prova del nesso di causalità tra la condotta dei sanitari e l’evento dannoso patito da B. E., evento da individuarsi nella perdita della possibilità di arrestare la progressione della malattia, evitando l’accertato peggioramento clinico che ha portato al prematuro decesso prima dei 10 anni, e quindi nella perdita della possibilità di guarigione.
Come rilevato dalla Corte di Cassazione, è configurabile il cd. danno da perdita di chance nella materia del trattamento medico quando la colpevole condotta del sanitario ha avuto come conseguenza un evento di danno incerto, costituito dalla perdita della possibilità di una maggiore durata della vita o di minori sofferenze (Cass.civ. sez. 3, 11 novembre 2019 n. 28993).
In particolare, secondo quanto osservato in tale pronuncia, l’incertezza riguarda esclusivamente il raggiungimento di un determinato risultato, il cui verificarsi è, quindi, valutato soltanto come possibile in base alle conoscenze scientifiche ed alle metodologie di cura del tempo.
Tuttavia, ai fini della risarcibilità di tale danno, occorre pur sempre la prova del nesso causale tra la condotta e l’evento di danno, costituito per l’appunto dalla possibilità perduta, nonché la prova del fatto che la possibilità del verificarsi del risultato perduto sia consistente, apprezzabile e seria (al fine di distinguere, come affermato nella richiamata sentenza, la concreta possibilità da una mera speranza).
Pertanto, in base ai citati principi, nel caso in cui la condotta colposa del sanitario ha ridotto, con certezza o con ragionevole probabilità, la speranza di vita futura del paziente, si è in presenza di un danno certo da impedita o ritardata guarigione e non viene in rilievo un danno da perdita di chance.
Diversamente, qualora la condotta del medico abbia privato il paziente, sempre secondo un giudizio di ragionevole probabilità, della mera possibilità di guarire, l’evento danno di individuerà nella chance perduta.
Il caso in esame rientra nel paradigma da ultimo delineato.
Invero, la prova del nesso causale si evince dai seguenti dati:
a) come si è evidenziato, i CTU hanno più volte ribadito che la corretta diagnosi della malattia avrebbe comportato la scelta di un diverso percorso terapeutico, atto a ridurre il rischio di ricaduta di malattia e che la mancata esecuzione di un adeguato trattamento post operatorio ha comportato l’aggravamento del rischio di morte;
b) risulta parimenti accertato che la prognosi di sopravvivenza a 10 anni per i pazienti trattati con chemioterapia di III generazione e trastuzumab dopo la chirurgia è maggiore rispetto a quella dei pazienti trattati solo chirurgicamente, in quanto aumenta al 88% rispetto al valore del 78% per i pazienti della seconda categoria;
c) l’attesa statistica della sopravvivenza a dieci anni a seguito del trattamento post operatorio è ampiamente superiore al 50%;
d) al di fuori della progressione della malattia trattata solo chirurgicamente, non sono state allegate né rilevate altre ipotesi causali del peggioramento riscontrato.
Al contempo l’individuazione dell’evento dannoso nella perdita della possibilità di raggiungere il risultato sperato della guarigione, e non nella perdita del risultato della guarigione, deriva dalle seguenti constatazioni:
e) come si desume dalla consulenza tecnica, la patologia da cui era affetta la signora B. comportava un significativo rischio di morte, anche in caso di trattamento post operatorio, in quanto anche la somministrazione delle terapie previste dalle linee guida, pur incrementando le possibilità di sopravvivenza, non avrebbe comunque eliso la possibilità dell’evento infausto;
f) non si evincono dalla consulenza tecnica d’ufficio, né tanto meno dalla consulenza di parte, elementi concreti per affermare che, in caso di corretta diagnosi e di conseguente anticipazione del trattamento, la paziente sarebbe certamente, o con ragionevole probabilità, rientrata nell’ambito della percentuale di quei pazienti che sarebbero sopravvissuti a 10 anni. Al riguardo occorre considerare che le percentuali di guarigione erano già alte per i pazienti aventi la medesima patologia e l’età di B. E. che non avevano eseguito alcuna terapia, essendo pari al 78% e che la differenza percentuale in termini di possibilità di sopravvivenza a 10 anni in caso di somministrazione delle terapie è stata stimata dai CTU nella misura del 10%;
g) l’incertezza nel conseguimento del risultato non può essere risolta né sulla base dei dati statistici evincibili dalle linee guida e dalla letteratura scientifica richiamate nella consulenza, né sulla base dei dati clinici e temporali relativi all’iter clinico della paziente.
In particolare, da un lato occorre considerare il rilievo della presenza di fattori prognostici indicati dai CTU come dichiaratamente negativi (stato recettoriale, Grading, Ki 67 ed espressione di Her2, cfr. pag. 23 dell’elaborato), deponenti per un’elevata aggressività della patologia tumorale e, come tali, suscettibili di condizionare in termini negativi le prognosi di maggiore sopravvivenza.
Dall’altro lato occorre considerare che la paziente, dopo avere iniziato il trattamento chemioterapico con adiuvante in presenza di recidiva e di plurime metastasi, è comunque sopravvissuta per quasi due anni. In particolare, si reputano significativi i dati emergenti dall’anamnesi patologica stilata dallo IEO in occasione del ricovero del 13 giugno 2014 (doc. 17 attoreo), laddove si attesta gli ottimi risultati sulle metastasi encefaliche del primo ciclo di trattamento chemioterapico con trastuzumab eseguito da agosto 2012 a marzo 2013, oltre che i risultati dissociati sulle lesioni ossee ed epatiche, nonché la ottima risposta strumentale epatica, sovradiaframmatica, polmonare ed ossea al trastuzumab a seguito dei cicli da aprile a giugno 2013 (cfr. pag. 3 e 4 del doc. 17). Si tratta quindi di dati che registrano dei miglioramenti sotto il profilo del contenimento delle metastasi e del rallentamento della progressione e che evidenziano quindi una buona risposta della paziente a tali trattamenti, il che rende, quindi, parimenti prospettabile che, in caso di inizio anticipato delle terapie, vi sarebbero state serie e concrete possibilità di evitare la progressione della malattia.
In definitiva, le citate risultanze istruttorie non consentono di superare l’incertezza sul verificarsi del risultato, costituito dalla sopravvivenza a 10 anni e quindi della probabile guarigione, considerate le condizioni della danneggiata, e segnatamente la tipologia e aggressività della patologia da cui era affetta B. E., nonchè il grado di efficacia delle cure omesse, che, in base agli accertamenti peritali, non avrebbero eliminato il rischio di anticipato decesso, data la permanenza di una area significativa di possibilità di esito infausto.
Al contempo, i dati fin qui esposti evidenziano la sussistenza di un chiaro rapporto causale tra la condotta colposa dei convenuti e la perdita in capo alla paziente della possibilità di conseguimento di tale risultato, possibilità da ritenersi certamente dotata dei requisiti della consistenza, serietà ed apprezzabilità, alla luce delle stimate percentuali di attesa di un risultato positivo.
Con specifico riferimento a tale aspetto, i convenuti hanno contestato la risarcibilità di tale danno alla stregua della percentuale di possibilità di maggiore sopravvivenza individuata dai CTU, pari al 10% in più rispetto alle possibilità di sopravvivenza dei pazienti trattati esclusivamente con l’intervento chirurgico, e quindi da considerarsi esigua e non apprezzabile.
Tale prospettazione non appare condivisibile.
Al riguardo, come argomentato dai CTP degli attori, la percentuale di possibilità di guarigione sottratta alla B. non si identifica tout court nel 10%, pari alla differenza tra la percentuale di sopravvivenza dell’88% riconosciuta ai pazienti trattati con chemioterapia di III generazione e trastuzumab dopo la chirurgia e quella del 78% per i pazienti trattati solo chirurgicamente.
Invero il 78% di possibilità di sopravvivenza a 10 anni in caso di solo trattamento chirurgico implica che su 100 pazienti affetti da tale patologia, 22 sarebbero morti prima dei 10 anni a causa della malattia e 78 sarebbero sopravvissuti.
L’aumento delle probabilità di sopravvivenza al 88%, comporta che su 100 pazienti sarebbero morti 12, anziché 22, sicchè vi sarebbero stati 10 pazienti in più che sarebbero sopravvissuti alla malattia.
Nel caso in esame B. E. è rientrata nella casistica dei 22 pazienti destinati all’esito infausto dopo l’intervento chirurgico.
Laddove fossero stati somministrati i previsti trattamenti terapeutici, B. E. avrebbe potuto rientrare nell’ambito dei 10 pazienti in più che sarebbero sopravvissuti fino a 10 anni o nell’ambito dei 12 per cui si sarebbe verificato l’anticipato decesso.
Se è vero che, in base alle considerazioni sopra esposte, vi è una insanabile incertezza in ordine a quale delle due categorie di pazienti sarebbe rientrata B. E., è però certo che, per effetto della omessa somministrazione degli appositi trattamenti farmacologici, la parte ha perso la possibilità di rientrare nell’ambito di quei 10 pazienti sul totale di 22 che avrebbero beneficiato di una maggiore sopravvivenza.
Orbene, in termini percentuali, 10 pazienti su 22 corrispondono al 45,45% del totale.
Pertanto, l’effettiva perdita di chance subita da B. E. – che è rientrata nell’ambito delle 22 donne che non sono sopravvissute alla malattia –corrisponde a tale percentuale, dal momento che, in caso di trattamento farmacologico post intervento, vi sarebbe stato una percentuale del 54,65% di donne (pari a 12 su 22) che sarebbero comunque decedute ed una percentuale del 45,45% in più che sarebbero sopravvissute alla malattia (pari a 10 su 22).
Risarcimento agli eredi del danno biologico terminale
Entrambi gli attori G. e I. B., marito e figlia di B. E., hanno richiesto il risarcimento del danno non patrimoniale da perdita del rapporto parentale in capo a G. B. e I. B., marito e figlia di B. E., anche sotto forma di perdita di chances di godere dei futuri anni di sopravvivenza del proprio familiare che la corretta diagnosi e la tempestiva somministrazione della terapia farmacologica avrebbe potuto garantire.
Entrambi hanno allegato e richiesto il risarcimento del danno biologico alla salute di natura psichica in correlazione con l’evento oggetto di causa.
Infine, gli attori hanno chiesto il risarcimento del danno patrimoniale emergente per le spese di cura sostenute e di quello futuro conseguente dalla perdita della quota di reddito che B. E. avrebbe destinato alla contribuzione familiare.
Partendo dal primo profilo, in base a quanto fin qui esposto viene in primo luogo in rilievo un danno da perdita di chance di godere del rapporto parentale, data la rilevata incertezza sulla effettiva guarigione e sopravvivenza di B. E. in caso di corretta diagnosi e di diversa scelta terapeutica.
Anche in tal caso si tratta di danno la cui liquidazione va effettuata in via equitativa e la cui sussistenza richiede l’accertamento degli stessi presupposti richiesti per il riconoscimento del danno da perdita o lesione del rapporto parentale.
Come rilevato dalla giurisprudenza di legittimità, il pregiudizio risarcibile conseguente alla perdita del rapporto parentale che spetta iure proprio ai prossimi congiunti si ricollega alla lesione della relazione che legava i familiari al defunto e richiede la prova dell’effettività e la consistenza di tale relazione, dovendo il giudice verificare la sussistenza della interiore sofferenza morale soggettiva e di quella riflessa sul piano dinamico relazionale e apprezzare la gravità ed effettiva entità del danno in considerazione dei concreti rapporti col congiunto, anche ricorrendo ad elementi presuntivi quali la maggiore o minore prossimità del legame parentale la qualità dei legami affettivi, la sopravvivenza di altri congiunti, la convivenza o meno col danneggiato, l’età delle parti ed ogni altra circostanza del caso (cfr. Cass.civ.,sez. 3 ord. 25 giugno 2021 n. 18284, Cass.civ. sez.3, 11 novembre 2019 n. 28989).
Nel caso in esame, è pacifico lo stretto legame ed il rapporto di convivenza intercorrente tra gli attori e B. E., che costituivano un nucleo familiare composto dai coniugi e dalla unica figlia.
Risulta inoltre che I. B., all’epoca della morte della madre, era ancora minorenne ed aveva solo 11 anni.
Gli attori hanno svolto precise e puntuali allegazioni sullo sconvolgimento che la malattia e la morte della loro congiunta ha prodotto sulle loro vite e sulle intense sofferenze subite, che ha anche portato G. B. ad affrontare un lungo percorso psicoterapeutico.
In particolare, come risulta dalle deduzioni svolte nell’atto di citazione, il marito G. B. ha sofferto di frequenti attacchi di panico, che lo hanno costretto ad assentarsi diverse volte dal lavoro ed a smettere di guidare l’automobile; la figlia I. B., dopo la morte della madre, ha sofferto di inappetenza e di frequenti crisi di pianto.
Si tratta di allegazioni che trovano conferma nella documentazione medica e negli esiti della consulenza tecnica disposta sulla persona degli attori, e che evidenziano le rilevanti conseguenze pregiudizievoli derivanti dalla perdita del rapporto parentale sia nella loro sfera morale che in quella dinamico-relazionale.
Venendo quindi alla determinazione del quantum, anche in tal caso come criterio per la liquidazione equitativa occorre partire in via orientativa dall’esame dei criteri di stima richiamati nella più recente giurisprudenza della Corte di Cassazione e segnatamente nella sentenza del 21 aprile 2021 n. 10579, secondo cui, testualmente “anche l’uniformità di giudizio a fronte di casi analoghi, il danno da perdita del rapporto parentale deve essere liquidato seguendo una tabella basata sul sistema a punti, che preveda, oltre l’adozione del criterio a punto, l’estrazione del valore medio del punto dai precedenti, la modularità e l’elencazione delle circostanze di fatto rilevanti, tra le quali, da indicare come indefettibili, l’età della vittima, l’età del superstite, il grado di parentela e la convivenza, nonchè l’indicazione dei relativi punteggi, con la possibilità di applicare sull’importo finale dei correttivi in ragione della particolarità della situazione, salvo che l’eccezionalità del caso non imponga, fornendone adeguata motivazione, una liquidazione del danno senza fare ricorso a tale tabella“.
In tale pronuncia viene richiamato il sistema di liquidazione per punti variabili adottato dalle Tabelle del Tribunale di Roma, che tiene conto dei seguenti parametri di liquidazione: 1) il rapporto di parentela esistente tra la vittima ed il congiunto avente diritto al risarcimento, con attribuzione di un numero di punti più elevati per i vincoli più stretti di parentela, in forza della presunzione che il danno sia maggiore quanto più stretto il rapporto; 2)l’età del congiunto, con attribuzione di un numero di punti decrescente man mano che aumenta dell’età, sul presupposto che il danno sia inversamente proporzionale all’età del congiunto superstite; 3) l’età della vittima, con attribuzione di un numero di punti decrescente con l’aumento dell’età , sul presupposto che il danno sia tanto maggiore quanto minore è l’età della vittima, in considerazione del progressivo avvicinarsi al naturale termine del ciclo della vita; 4) la convivenza tra la vittima ed il congiunto superstite, con attribuzione di un numero di punti aggiuntivo in caso di convivenza, dovendosi presumere che il danno sarà tanto maggiore quanto più costante e assidua è stata la frequentazione tra la vittima ed il superstite, nonché con attribuzione di ulteriori punti in caso di assenza all’interno del nucleo familiare di altri conviventi o di altri familiari non conviventi, ritenendosi maggiore il danno derivante dalla perdita se il congiunto superstite rimane solo, privo di quell’assistenza morale e materiale che gli derivano dal convivere con un’altra persona o dalla presenza di altri familiari, anche se non conviventi.
Utilizzando tale metodo di calcolo, si deve attribuire a G. B. un punteggio pari a 20 per la relazione di parentela (coniuge), un punteggio pari a 3 per l’età della vittima (43 anni), un punteggio pari a 3 per l’età del congiunto superstite (44 anni) e un ulteriore numero di punti pari a 4 per la convivenza..
A I. B. va attribuito un punteggio pari a 18 per la relazione di parentela (figli), pari a 3 per l’età della vittima, pari a 5 per l’età del congiunto (11 anni) e di 4 per la convivenza.
Per entrambi gli attori si arriva ad un numero di punti pari a 30, che, moltiplicato per il valore del punto di € 9.806,70, dà luogo all’importo di € 294.201,00 per ciascuno dei congiunti.
L’applicazione di tali criteri porta ad una liquidazione base che in sé appare congrua e proporzionata alle specificità del caso concreto in quanto tiene conto dell’intensità del vincolo familiare e della relazione affettiva tra le parti e della conseguente peculiare rilevanza della sofferenza morale derivante dalla perdita di B. E..
Appare anche coerente il fatto che si arrivi ad una somma di uguale entità per il coniuge e per la figlia minore, in quanto se da un lato, appaiono certamente significativi per una figlia in età puberale il turbamento e le ripercussioni negative derivanti dalla perdita della propria madre, dall’altro lato si connotano come particolarmente intese anche le sofferenze del coniuge, che oltre a doversi confrontare con il proprio dolore quotidiano, quale genitore superstite si trova costretto a misurarsi anche con il dolore della propria figlia per la perdita dell’altro genitore e con la paura per le conseguenze negative sulla crescita e sullo sviluppo del minore derivanti da tale grave perdita.
Occorre poi considerare tale somma congrua anche in considerazione del fatto che non vi è evidenza del fatto che gli attori siano gli unici familiari superstiti e che non vi siano altri parenti fino al quarto grado.
La liquidazione del pregiudizio deve tenere conto della natura del pregiudizio risarcito, che è un danno da perdita di chance, nonché del fatto che, in considerazione della natura e gravità della malattia di B. E., la perdita delle possibilità di sopravvivenza a 10 anni, pur equivalendo in ambito medico alla possibile guarigione, avrebbe comunque comportato un serio rischio di riduzione della possibile proiezione futura del rapporto familiare.
Per tale motivo si ritiene che oltre alla riduzione alla somma di € 132.390,45 per effetto della percentuale sopra stimata, il pregiudizio liquidabile vada ulteriormente ridotto e vada pertanto liquidato in via equitativa (applicando un’ulteriore riduzione di circa il 20%) nella somma di € 105.912,00 per ciascuno degli attori.
Il risarcimento del danno da perdita parentale
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