Parliamo di risarcimento danni per intervento al cuore mal eseguito, tanto da causare la morte del paziente. Un caso recentemente deciso dal Tribunale di Novara con la sentenza numero 714 del 6 dicembre 2021, che ha condannato un ospedale per colpa dei medici che hanno eseguito, in modo errato, un intervento di sostituzione di valvola mitrale a una paziente che, invero, per tale motivo è deceduta.
L’intervento di sostituzione della valvola mitrale
La valvola mitrale (o mitralica) si trova nel cuore, tra l’atrio e il ventricolo sinistro, e ha il compito di regolare il flusso di sangue tramite l’orifizio che mette in comunicazione i due compartimenti cardiaci.
Quando la valvola nativa è danneggiata, si può intervenire chirurgicamente asportandola e sostituendola con una protesi biologica o meccanica.
La valvola biologica è costituita da materiale animale ed ha durata variabile (più giovane è il soggetto, più veloce è la degenerazione), mentre la protesi meccanica è composta da materiale quale carbonio e dura tutta la vita, ma il paziente è tenuto per sempre ad assumere farmaci anticoagulanti.
I medici hanno violato il dovere di diligenza
Il vedovo, le figlie e i nipoti di una donna si sono rivolti al Tribunale per ottenere il risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali patiti in conseguenza del decesso della loro congiunta, occorso in seguito ad un intervento chirurgico di sostituzione valvolare mitralica con protesi biologica praticato presso la struttura convenuta.
In corso di causa veniva disposta una Consulenza Tecnica d’Ufficio che accertava diverse negligenze e imperizie mediche, tra cui:
– l’omessa adozione intraoperatoria di un’ottica, fattore che potrebbe aver concorso al parziale distacco della valvola dalla sua sede;
– omessa esecuzione di un controllo ecocardiografico intraoperatorio, fattore che ha privato la paziente della possibilità di beneficiare di un immediato tentativo di correzione del distacco;
– insufficiente monitoraggio strumentale-laboratoristico postoperatorio;
– conseguente tardiva formulazione dell’indicazione di correzione percutanea del leak.
I periti incaricati dal Tribunale hanno quindi concluso nel senso della rilevanza causale di dette condotte nel determinare la morte della donna, avvenuta per scompenso cardiaco refrattario e sepsi.
Nell’operato dei sanitari dell’ospedale, per le ragioni sopra evidenziate, è quindi stato ravvisato dal Tribunale un inesatto adempimento delle prestazioni necessarie ad evitare il decesso della paziente, con conseguente responsabilità per violazione del dovere di diligenza ex art. 1176 c. c., di cui risponde la struttura ospedaliera nei confronti del paziente ai sensi dell’art. 1228 c. c. e dei suoi parenti ai sensi dell’art. 2043 c. c..
Il risarcimento dei danni a marito e figlie
Esaurita la fase dell’accertamento della responsabilità, occorre individuare i danni risarcibili e procedere alla loro liquidazione.
Gli attori hanno chiesto risarcirsi il danno da perdita del rapporto parentale, per aver patito la privazione di un congiunto.
Il danno a tale titolo risarcibile consiste nell’insieme delle conseguenze pregiudizievoli non patrimoniali, rappresentate dalla sofferenza interiore e dall’alterazione peggiorativa delle attività dinamico-relazionali precedentemente esplicate dai danneggiati, derivanti dalla perdita del rapporto familiare.
Quando la liquidazione del danno sia richiesta da soggetti appartenenti alla famiglia nucleare può presumersi la sussistenza di un intenso vincolo affettivo e di un progetto di vita comune, tale da cagionare quella sofferenza e quell’alterazione dell’esistenza che normalmente si accompagnano alla perdita di una persona tanto cara.
Nel caso di specie, quindi, a titolo di risarcimento danni per perdita del rapporto parentale, al marito viene riconosciuto un risarcimento di 170mila euro e, alle figlie, di 50mila euro ciascuna.
Al marito e alle figlie viene anche riconosciuto, in qualità di eredi della paziente morta, il risarcimento del danno biologico terminale sofferto dalla vittima nel periodo intercorso tra l’intervento e il decesso (4 mesi).
In tema di danno non patrimoniale risarcibile in caso di morte causata da un illecito, il danno morale terminale e quello biologico terminale si distinguono in quanto il primo (danno da lucida agonia o danno catastrofale o catastrofico), consiste nel pregiudizio subito dalla vittima in ragione della sofferenza provata nel consapevolmente avvertire l’ineluttabile approssimarsi della propria fine ed è risarcibile a prescindere dall’apprezzabilità dell’intervallo di tempo intercorso tra le lesioni e il decesso, rilevando soltanto la sofferenza medesima; il secondo, quale pregiudizio alla salute che, anche se temporaneo, è massimo nella sua entità e intensità, sussiste, per il tempo della permanenza in vita, a prescindere dalla percezione cosciente della gravissima lesione dell’integrità personale della vittima nella fase terminale della stessa, ma richiede, ai fini della risarcibilità, che tra le lesioni colpose e la morte intercorra un apprezzabile lasso di tempo (Cass. 3557/2020; 21837/2019).
Nel caso di specie il decesso della paziente è avvenuto circa quattro mesi dopo rispetto all’intervento chirurgico praticato e, cioè, dopo un lasso di tempo tale da potersi ragionevolmente ritenere che vi sia stata un’effettiva compromissione dell’integrità psicofisica del soggetto leso, valutabile in termini di invalidità temporanea assoluta e distinguibile dall’evento letale.
Non è invece stata adeguatamente provata, secondo il Tribunale, la sussistenza del danno morale terminale o catastrofale, definito in giurisprudenza come “la sofferenza patita dalla vittima durante l’agonia, risarcibile iure hereditatis unicamente allorché la vittima sia stata in condizione di percepire il proprio stato, abbia cioè avuto l’angosciosa consapevolezza della fine imminente” e allorché “gli eredi diano prova che il congiunto abbia avuto coscienza dell’ineluttabilità della propria fine” (Cass. 28423/2008; 6754/2011; 22451/2017).
Nel corso del giudizio, infatti, nessuna prova è stata offerta dagli attori in ordine alla concreta percezione dell’imminente fine della vita da parte della propria congiunta.
Niente risarcimento ai nipoti: non bastano foto con la nonna
La domanda di risarcimento del danno da perdita del rapporto parentale spiegata dai nipoti è stata rigettata dal Tribunale.
Quando il risarcimento è richiesto da soggetti diversi da quelli appartenenti alla famiglia nucleare deve essere provata l’esistenza di un saldo vincolo affettivo, che consenta di presumere il pregiudizio non patrimoniale patito in conseguenza della scomparsa del congiunto, a prescindere dal requisito della convivenza con quest’ultimo (Cass. 21230/2016; Cass. 29332/2017).
I nipoti non appartengono alla famiglia nucleare e dunque, in forza dei principi giurisprudenziali sopra citati, sarebbe stato loro onere provare la sussistenza di un vincolo affettivo con la defunta, tale da aver determinato negli stessi una sofferenza interiore a seguito della perdita del rapporto parentale.
E, secondo il Tribunale, essi non hanno fornito prova del legame che li univa con la nonna, né l’eventuale rapporto di frequentazione, né altre circostanze utili a far ritenere che tra gli stessi sussistesse un vincolo affettivo.
Il Tribunale, peraltro, non ha riconosciuto alcun valore probatorio alle fotografie allegate alla memoria istruttoria, essendo relative a singole occasioni e nulla dimostrando circa il concreto atteggiarsi del rapporto tra nonna e nipoti.
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