Secondo l’orientamento ormai consolidato della giurisprudenza di legittimità e di merito, la responsabilità della struttura sanitaria nei confronti del paziente è di carattere contrattuale.
Da ciò discende che il paziente, per richiedere il risarcimento dei danni subiti per responsabilità medico-sanitaria, dovrà solo provare di aver avuto un rapporto con l’ospedale e di aver subito un danno.
Per parlare di questo argomento riportiamo i tratti salienti della recente sentenza del Tribunale di Palermo, n. 292 del 25.01.2022.
L’ospedale deve fornire una prestazione “esatta”
La responsabilità contrattuale dell’ospedale nei confronti del paziente deriva prima di tutto dall’art. 1218 del codice civile intitolato “responsabilità del debitore”, secondo cui: il debitore che non esegue esattamente la prestazione dovuta è tenuto al risarcimento del danno, se non prova che l’inadempimento o il ritardo è stato determinato da impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile.
Quindi, intendendosi per “debitore” l’ospedale, esso risponde per fatto proprio dall’inadempimento del contratto concluso con il paziente, da cui insorgono a carico dell’ente obbligazioni di natura mista derivanti da un rapporto di carattere “latu sensu” alberghiero, nonché di organizzazione di strutture e di dotazioni, anche umane, con la conseguente messa a disposizione del personale medico (e paramedico) e dell’apprestamento di tutte le attrezzature necessarie, anche in vista di eventuali complicazioni od emergenze.
La Corte di Cassazione afferma che “l’accettazione del paziente in una struttura (pubblica o privata) deputata a fornire assistenza sanitario-ospedaliera, sia ai fini del ricovero che di una visita ambulatoriale, comporta comunque la conclusione di un contratto di prestazione d’opera atipico di spedalità con la medesima“( Cass. civ. n. 24791/2008).
L’ospedale risponde anche per colpa dei sanitari
La responsabilità della struttura sanitaria può poi anche discendere ex art. 1228 c.c. dal fatto altrui, ove i danni lamentati siano dipesi dalla colpa dei sanitari di cui l’ospedale si avvale, e ciò anche quando l’operatore non sia un suo dipendente (Cass. civ. n. 1043/2019).
Peraltro, le Sezioni Unite hanno avuto cura di precisare che “è irrilevante che si tratti di una casa di cura privata o di un ospedale pubblico, in quanto sostanzialmente equivalenti sono a livello normativo gli obblighi dei due tipi di strutture verso il fruitore dei servizi, ed anche nella giurisprudenza si riscontra una equiparazione completa della struttura privata a quella pubblica, quanto al regime della responsabilità civile anche in considerazione del fatto che si tratta di violazioni che incidono sul bene della salute, tutelato quale diritto fondamentale dalla Costituzione, senza possibilità di limitazioni di responsabilità o differenze risarcitorie a seconda della diversa natura, pubblica o privata, della struttura sanitaria” (Cass. civ. sez. un. n. 577/2008).
La legge Gelli Bianco
I suddetti principi sono stati recepiti dalla legge n. 24 del 2017 (entrata in vigore in data 1° aprile 2017), il cui art. 7, primo comma, dispone: “la struttura sanitaria o sociosanitaria pubblica o privata che, nell’adempimento della propria obbligazione, si avvalga dell’opera di esercenti la professione sanitaria, che se scelti dal paziente e ancorché non dipendenti dalla struttura stessa, risponde, ai sensi degli articoli 1218 e 1228 del codice civile, delle loro condotte dolose o colpose“.
L’onere della prova
Dall’inquadramento della responsabilità medico-sanitaria nell’ambito di quella contrattuale derivano conseguenze in punto di ripartizione dell’onere della prova.
Ed invero, prima dell’intervento della Corte di Cassazione a sezioni unite con l’ormai nota pronuncia n. 13533/2001, era diffusa l’idea che la ripartizione dell’onere probatorio in caso di responsabilità medica dovesse fondarsi principalmente sulla difficoltà della prestazione, in forza di una interpretazione che tendeva a sopravvalutare gli effetti dell’art. 2236 c. c. sulla finale allocazione della cd. alea terapeutica.
Simile canone ermeneutico, in punto di prova dell’inadempimento, è stato tuttavia superato con la citata pronuncia del 2001, alla quale si è uniformata la giurisprudenza successiva (che ne ha fatto ampia applicazione in tema di responsabilità medica).
È ormai pacifico, infatti, che:
– spetta al paziente provare l’esistenza del contratto di spedalità e l’evento dannoso, consistente nell’aggravamento (ovvero, in alcuni casi, nella inalterazione) della preesistente patologia oppure nell’insorgenza di una nuova condizione patologica quale effetto dell’intervento;
– mentre a carico della struttura è lasciato l’onere di provare che la prestazione professionale sia stata eseguita secondo la migliore scienza ed esperienza medica, e che l’evento infausto sia stato determinato da un evento imprevisto e imprevedibile (cfr. Cass. civ. n. 975/2009), ovvero causalmente estraneo all’operato del personale medico (e/o paramedico), ovvero che l’inadempimento, ove pur esistente, non sia stato la causa dell’evento dedotto, o comunque sia rimasto alieno alla sua sfera soggettiva di signoria, non essendo imputabile alla struttura medesima (cfr. Cass. civ. n. 6102/2015).
In altri termini, “ove sia dedotta una responsabilità contrattuale della struttura sanitaria per l’inesatto adempimento della prestazione sanitaria, il danneggiato deve fornire la prova del contratto e dell’aggravamento della situazione patologica (o dell’insorgenza di nuove patologie per effetto dell’intervento) e del relativo nesso di causalità con l’azione o l’omissione dei sanitari, restando a carico dell’obbligato la prova che la prestazione professionale sia stata eseguita in modo diligente e che quegli esiti siano stati determinati da un evento imprevisto e imprevedibile” (Cass. civ. n. 16828/2018).
Rimane pertanto ininfluente, almeno dal punto di vista dell’allocazione dell’onere della prova, lo scrutinio in merito alla difficoltà della prestazione, la quale assurge a mero parametro di valutazione della diligenza nell’adempimento (così Cass. civ. n. 18307/2015), fermo restando che la limitazione della responsabilità ai soli casi di dolo o colpa grave prevista dall’art. 2236 c.c. attiene alle sole ipotesi di imperizia, che possano essere giustificate dalla particolare complessità o novità dell’opera richiesta, e non si estende alle ipotesi in cui la prestazione sia stata viziata da negligenza o imprudenza, cioè una violazione della diligenza professionale media esigibile ex art. 1176, secondo comma, c.c., rispetto a cui rileva anche la colpa lieve (cfr. Cass. civ. n. 5506/2014, n. 6093/2013, n. 5846/2007 e 9085/2006).
Il criterio del “più probabile che non”
In ordine poi al criterio alla stregua del quale accertare la sussistenza del rapporto di causalità tra la condotta del medico e il danno allegato dal paziente, i giudici di legittimità hanno affermato che: “in tema di responsabilità civile, il nesso causale è regolato dal principio di cui agli art. 40 e 41 c.p., per il quale un evento è da considerare causato da un altro se il primo non si sarebbe verificato in assenza del secondo, nonché dal criterio della cosiddetta causalità adeguata, sulla base del quale, all’interno della serie causale, occorre dar rilievo solo a quegli eventi che non appaiano – ad una valutazione “ex ante” – del tutto inverosimili, ferma restando, peraltro, la diversità del regime probatorio applicabile, in ragione dei differenti valori sottesi ai due processi: nel senso che, nell’accertamento del nesso causale in materia civile, vige la regola della preponderanza dell’evidenza o del “più probabile che non“, mentre nel processo penale vige la regola della prova “oltre il ragionevole dubbio”.
Ne consegue, con riguardo alla responsabilità professionale del medico, che, essendo quest’ultimo tenuto a espletare l’attività professionale secondo canoni di diligenza e di perizia scientifica, il giudice, accertata l’omissione di tale attività, può ritenere, in assenza di altri fattori alternativi, che tale omissione sia stata causa dell’evento lesivo e che, per converso, la condotta doverosa, se fosse stata tenuta, avrebbe impedito il verificarsi dell’evento stesso (Cass. civ. n. 16123/2010).
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