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  • disconoscimento
  • DNA
  • paternità

Il disconoscimento di paternità è l’azione giudiziaria, disciplinata dagli artt. 243 bis e seguenti c. c., con cui si chiede al Tribunale di accertare che tra un (presunto) padre e il/la (presunto/a) figlio/a non c’è nessun legame biologico.

La scelta di disconoscere formalmente la paternità scaturisce dal fatto che il/la figlio/a è stato/a concepito/a dalla madre con un altro uomo.

L’azione di disconoscimento di paternità del figlio nato nel matrimonio può essere esercitata dal marito, dalla madre e dal figlio medesimo.

Chi esercita l’azione è ammesso a provare che non sussiste rapporto di filiazione tra il figlio e il presunto padre.

Ma la sola dichiarazione della madre non esclude la paternità.

 

 

  • Termini per proporre l’azione di disconoscimento di paternità
  • Sospensione del termine
  • In certi casi anche i parenti possono promuovere l’azione
  • Chi partecipa alla causa?
  • Disconoscimento di figli nati da coppie non sposate
  • La prova regina per il disconoscimento di paternità: l’esame del DNA

 

 

Termini per proporre l’azione di disconoscimento di paternità

L’azione di disconoscimento della paternità da parte della madre deve essere proposta nel termine di sei mesi dalla nascita del figlio, ovvero dal giorno in cui è venuta a conoscenza dell’impotenza di generare del marito al tempo del concepimento.

Il marito può disconoscere il figlio nel termine di un anno che decorre dal giorno della nascita quando egli si trovava al tempo di questa nel luogo in cui è nato il figlio; se prova di aver ignorato la propria impotenza di generare ovvero l’adulterio della moglie al tempo del concepimento, il termine decorre dal giorno in cui ne ha avuto conoscenza.

Se il marito non si trovava nel luogo in cui è nato il figlio il giorno della nascita il termine di un anno decorre dal giorno del suo ritorno o dal giorno del ritorno nella residenza familiare se egli ne era lontano. In ogni caso, se egli prova di non aver avuto notizia della nascita in detti giorni, il termine decorre dal giorno in cui ne ha avuto notizia.

Nei casi in cui il marito ha diritto al disconoscimento, l’azione non può essere, comunque, proposta oltre cinque anni dal giorno della nascita.

L’azione di disconoscimento della paternità può essere proposta dal figlio che ha raggiunto la maggiore età.

L’azione è imprescrittibile riguardo al figlio.

L’azione può essere altresì promossa da un curatore speciale nominato dal giudice, assunte sommarie informazioni, su istanza del figlio minore che ha compiuto i quattordici anni, o del pubblico ministero o dell’altro genitore, quando si tratta di minore di età inferiore.

 

Sospensione del termine

Se la parte interessata a promuovere l’azione di disconoscimento della paternità si trova in stato di interdizione per infermità di mente, ovvero versa in condizioni di abituale grave infermità di mente, che lo renda incapace di provvedere ai propri interessi, la decorrenza del termine indicato è sospesa nei suoi confronti, sino a che dura lo stato di interdizione o durino le condizioni di abituale grave infermità di mente.

Quando il figlio si trova in stato di interdizione ovvero versa in condizioni di abituale grave infermità di mente, che lo renda incapace di provvedere ai propri interessi, l’azione può essere altresì promossa da un curatore speciale nominato dal giudice, assunte sommarie informazioni, su istanza del pubblico ministero, del tutore, o dell’altro genitore.

Per gli altri legittimati l’azione può essere proposta dal tutore o, in mancanza di questo, da un curatore speciale, previa autorizzazione del giudice.

 

In certi casi anche i parenti possono promuovere l’azione

Se il presunto padre o la madre titolari dell’azione di disconoscimento della paternità sono morti senza averla promossa, sono ammessi ad esercitarla in loro vece i discendenti o gli ascendenti.

Se il figlio titolare dell’azione di disconoscimento di paternità è morto senza averla promossa sono ammessi ad esercitarla in sua vece il coniuge o i discendenti nel termine di un anno che decorre dalla morte del figlio o dal raggiungimento della maggiore età da parte di ciascuno dei discendenti.

 

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Chi partecipa alla causa? 

Chi decide di intraprendere una causa in Tribunale per disconoscimento di paternità deve coinvolgere più soggetti.

E’ prevista necessariamente la convocazione del presunto padre, della madre e del il figlio.

Se una delle parti è minore o interdetta, l’azione è proposta in contraddittorio con un curatore nominato dal giudice davanti al quale il giudizio deve essere promosso.

Se una delle parti è un minore emancipato o un maggiore inabilitato, l’azione è proposta contro la stessa, assistita da un curatore parimenti nominato dal giudice.

Se il presunto padre o la madre o il figlio sono morti, l’azione si propone nei confronti dei discendenti o ascendenti o, in loro mancanza, nei confronti di un curatore parimenti nominato dal giudice.

 

Disconoscimento di figli nati da coppie non sposate

Finora abbiamo parlato dell’azione di disconoscimento di paternità nell’ambito del matrimonio, ma è possibile disconoscere anche figli nati da coppie non sposate.

In questo caso, tuttavia, non essendovi presunzione di paternità, l’azione sarà volta a impugnare il riconoscimento del/la figlio/a, anche se avvenuto nella consapevolezza che non fosse proprio/a.

Si tratta quindi di una impugnazione del riconoscimento per difetto di veridicità, disciplinata dall’art. 263 c. c. che così recita:

(1)Il riconoscimento può essere impugnato per difetto di veridicità dall’autore del riconoscimento, da colui che è stato riconosciuto o da chiunque vi abbia interesse.

(2)L’azione è imprescrittibile riguardo al figlio.

(3)L’azione di impugnazione da parte dell’autore del riconoscimento deve essere proposta nel termine di un anno che decorre dal giorno dell’annotazione del riconoscimento sull’atto di nascita. Se l’autore del riconoscimento prova di aver ignorato la propria impotenza al tempo del concepimento, il termine decorre dal giorno in cui ne ha avuto conoscenza; nello stesso termine, la madre che abbia effettuato il riconoscimento è ammessa a provare di aver ignorato l’impotenza del presunto padre. L’azione non può essere comunque proposta oltre cinque anni dall’annotazione del riconoscimento.

(4) L’azione di impugnazione da parte degli altri legittimati deve essere proposta nel termine di cinque anni che decorrono dal giorno dall’annotazione del riconoscimento sull’atto di nascita. Si applica l’articolo 245.

L’impugnazione del riconoscimento per difetto di veridicità può essere altresì promossa da un curatore speciale nominato dal giudice, assunte sommarie informazioni, su istanza del figlio minore che ha compiuto quattordici anni, ovvero del pubblico ministero o dell’altro genitore che abbia validamente riconosciuto il figlio, quando si tratti di figlio di età inferiore.

Il riconoscimento può essere impugnato anche per violenza, dall’autore del riconoscimento entro un anno dal giorno in cui la violenza è cessata.

 

La prova regina per il disconoscimento di paternità: l’esame del DNA

Il test del DNA è un esame genetico che permette di accertare se tra il (presunto) padre ed il/la (presunto/a) figlio/a vi è un legame biologico.

L’esame viene disposto nel corso della causa dal Tribunale, con incarico ad un medico genetista.

L’esame avviene tramite il prelievo di saliva dei due soggetti interessati, dopodichè si compara di DNA dell’uno con quello dell’altro.

È illecito il prelievo e l’eventuale trattamento di dati genetici altrui, per finalità non sanitarie, ma predittive in ordine ad un’azione di disconoscimento della paternità, mediante l’accertamento preventivo della consanguineità tra le parti interessate, qualora sia avvenuto senza il consenso dell’interessato, e senza l’autorizzazione del garante della privacy.

L’accertamento immuno-ematologico per l’accertamento della paternità non è subordinato alla prova dell’esistenza di una relazione, e il rifiuto ingiustificato a sottoporsi al test del DNA, ai sensi dell’art. 116 c. p. c., è suscettibile di essere valutato come ammissione (Cassazione civile sez. I – 14/06/2019, n. 16128).

 

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