Riportiamo un ennesimo caso di malasanità trattato dal Tribunale di Bologna che, all’udienza del 30.07.2020, ha condannato un medico per aver diagnosticato in ritardo ad una paziente un carcinoma mammario sotto forma di malattia di Paget.
La malattia di Paget del capezzolo
Come sempre, diamo una sintetica definizione della malattia oggetto del caso di malasanità di cui parliamo con questo articolo.
La malattia di Paget del capezzolo (detta anche morbo di Paget del seno) è una forma di carcinoma che si manifesta tramite psoriasi o eczema in prossimità del capezzolo o dell’areola e che deriva da un’estensione epidermica di un carcinoma mammario sottostante.
I fatti: il medico ritarda la diagnosi
I sig.ri B. L. e B. I., sia in proprio che nella qualità di eredi della sig.ra D. R., hanno convenuto in giudizio il medico F. G., contestandogli che la propria congiunta (rispettivamente la moglie e madre), seppur fosse da tempo seguita dal medico, non era stata da quest’ultimo correttamente curata.
Precisamente, nonostante nel corso di una visita avesse effettuato una mammografia che evidenziava una “erosione del capezzolo destro in rapporto a morbo di Paget“, il medico non le prescriveva altri esami e la rinviava per un altro controllo a distanza di ben 8 mesi.
Ebbene, alla nuova visita lo stesso medico si rendeva conto che la patologia era nettamente peggiorata e la paziente doveva essere operata. Ma, purtroppo, ormai era tardi!
Infatti, altri medici che la visitavano subito, ritennero che la malattia, troppo avanzata ed estesa ad altri organi, rendesse inutile l’intervento chirurgico.
E la chemioterapica, la radioterapica ed altre specifiche terapie tra cui di natura palliativa, non evitavano la morte della paziente.
I familiari della paziente accusano quindi il F.G. di aver tardivamente diagnosticato il carcinoma mammario.
In che modo si deve provare la colpa del medico?
I familiari che vogliono veder risarciti i danni subiti, sia dalla paziente (iure proprio) che da essi stessi (in qualità di eredi), sono tenuti a seguire i seguenti principi:
(a) il nesso di causa tra una condotta illecita e un danno può essere affermato non solo quando il secondo sia stato una conseguenza certa della prima, ma anche se sia stato una conseguenza ragionevolmente probabile;
(b) la ragionevole probabilità che quella causa abbia provocato quel danno va intesa non in senso statistico, ma logico: cioè non in base a regole astratte, ma in base alle circostanze del caso concreto;
(c) ciò vuol dire che anche in una causa statisticamente improbabile può ravvisarsi la genesi del danno, se tutte le altre possibili cause fossero ancor più improbabili, e non siano concepibili altre possibili cause.
Vediamo se i familiari sono riusciti a dimostrare le proprie ragioni.
La consulenza Tecnica d’Ufficio dà ragione ai familiari del paziente
Il Tribunale, in base agli accertamenti medico-legali che sono stati disposti, ha ritenuto provato che:
“si hanno più che ragionevoli motivi per ritenere che un intervento diagnostico e terapeutico più tempestivo non avrebbe certo potuto avere effetti salvifici per la vita della D., che sarebbe purtroppo comunque deceduta nel volgere di un periodo di tempo non esattamente stimabile, e dovuto alla individuale capacità di fronteggiare la malattia, ma vi sono elementi più che fondati, secondo la regola del “più probabile che non”, per affermare che il tempo di sopravvivenza della signora D. sarebbe stato certamente superiore a quello che, per effetto del ritardo nelle cure, è poi effettivamente stato”.
Quindi, l’intervallo temporale tra il riscontro clinico e la diagnosi di metastasi epatica, ha sicuramente cambiato lo stadio patologico della malattia, in ipotesi dallo stadio S1 allo stadio S4, dato l’alto indice proliferativo e la conseguente alta velocita di crescita del tumore e delle caratteristiche biologiche delle cellule tumorali.
Precisamente, se l’intervento medico fosse stato tempestivo, il periodo di sopravvivenza alla malattia, anche a causa della presumibile più ritardata comparsa delle metastasi, o comunque in ragione di un più tempestivo trattamento chemioterapico delle stesse, sarebbero stato più lungo, e l’evento letale non sarebbe stato comunque evitabile ma, semmai, traslato di 9 mesi, pari al ritardo nell’apprestare le terapie.
La paziente (e per essa gli eredi) viene risarcita con 90mila euro
Il Giudice ha quindi appurato che, se il medico avesse tempestivamente diagnosticato la malattia, la paziente sarebbe stata operata e curata più efficacemente e avrebbe vissuto più a lungo.
Calcolando che la paziente avrebbe vissuto almeno 9 mesi in più, il Tribunale ha riconosciuto alla paziente (iure proprio) un danno complessivo di 90mila euro, pari a 10mila euro al mese.
Questo risarcimento, essendo ormai defunta la paziente, viene percepito in qualità di eredi dal vedovo e dal figlio.
I familiari vengono risarciti per 80 mila euro per la lesione del rapporto parentale
Al vedovo ed al figlio spetta anche un danno proprio da perdita del rapporto parentale.
Tale tipo di danno consiste nel non potere più godere della presenza e del rapporto con chi è venuto meno e perciò nell’irrimediabile distruzione di un sistema di vita basato sull’affettività, sulla condivisione, sulla intangibilità della sfera degli affetti e della reciproca solidarietà nell’ambito della famiglia e sulla inviolabilità della libera e piena esplicazione delle attività realizzatrici della persona umana nell’ambito di quella peculiare formazione sociale costituita dalla famiglia, nonchè nell’alterazione che una scomparsa del genere inevitabilmente produce anche nelle relazioni tra i superstiti, danno che può presumersi allorquando costoro siano legati da uno stretto vincolo di parentela.
Questo danno è stato riconosciuto quanto al vedovo in 50mila euro (5mila euro circa per ogni mese di sopravvivenza in cui lo stesso avrebbe potuto continuare a rapportarsi con la moglie), e quanto al figlio in 30mila euro (3mila euro circa per ogni mese di sopravvivenza in cui la figlia non convivente avrebbe potuto rapportarsi con la madre).
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