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21/01/2022
- Ipossia neonatale o perinatale
- La tetraparesi distonica
- Il caso
- La corresponsabilità di ginecologo e ostetrica
- La responsabilità del medico che subentra
- Fino alla legge Balducci, in sede penale non rileva il grado di colpa medica
Ipossia neonatale o perinatale
Fino alla nascita, il feto riceve ossigeno dalla gestante tramite il cordone ombelicale e la placenta e, una volta nato, autonomamente tramite la respirazione da bocca e naso.
Ma può accadere che, durante il parto, il bambino abbia una insufficienza respiratoria (ipossia) da cui possano derivare al bambino conseguenze letali (la morte) o gravi danni (paralisi, ritardi cognitivi etc.).
L’ipossia può derivare da patologie materne (anemia, ipertensione), della placenta (il distacco), del cordone ombelicale (si pensi ai giri del cordone intorno al collo del feto) etc. Ma l’ipossia può derivare anche da negligenze mediche prima, durante o dopo il parto, come vedremo.
La tetraparesi distonica
La tetraparesi è la condizione di paralisi sia degli arti superiori (braccia) che di quelli inferiori (gambe), che quindi comporta una difficoltà o impossibilità di movimento per chi ne è affetto. Questa malattia può derivare dalla lesione del midollo spinale o da problemi circolatori cui segua una ischemia.
La tetraparesi si può riscontrare anche nelle paralisi cerebrali neonatali, condizioni che dipendono da un danno neurologico subìto durante o subito dopo il parto.
Il caso
Vediamo un caso trattato dalla Corte di Cassazione Penale con la sentenza n. 47801 del 5 ottobre 2018.
Un ginecologo e una ostetrica sono stati condannati in primo e secondo grado per avere cagionato a un bambino una lesione (danno ipossico) da cui è derivata una grave e probabilmente insanabile malattia (tetraparesi distonica).
Sia il Tribunale che la Corte di Appello avevano contestato al ginecologo e all’ostetrica di avere omesso di preparare la sala operatoria e di passare dal parto naturale al taglio cesareo in una situazione di gravidanza a rischio (perchè oltre termine e con segnali di sofferenza fetale), così cagionando il verificarsi di un’ipossia/anossia dalla quale sono derivate, a carico del piccolo, le conseguenze di cui si è detto.
Infatti, il tracciato cardiotocografico, benchè apparentemente normale, veniva ritenuto tuttavia non rassicurante (considerando che la gravidanza era fuori termine, ossia a 41 settimane e 3 giorni) per la presenza di alcune “decelerazioni ricorrenti e variabili”; dopodichè vi era un’interruzione del tracciato; successivamente si presentava un tracciato che, da non rassicurante, veniva qualificato come “francamente anormale, cioè fortemente patologico”, e così fino alla fase conclusiva del tracciato.
Quindi, secondo i periti del Tribunale, gli esiti del tracciato inducevano a ritenere che, a una prima fase in cui si sarebbe verificato un parziale distacco della placenta, sia seguito il distacco totale della stessa, responsabile delle lesioni alle aree basali dell’encefalo del bambino.
Sulla base della presenza di indici di sofferenza fetale, pertanto, il comportamento alternativo doveroso sarebbe stato quello di procedere immediatamente a estrazione del feto mediante taglio cesareo; ma, a fronte di ciò, i due imputati non avevano preso in considerazione i dati dei tracciati e, in luogo di procedere con il taglio cesareo, avevano proceduto con il parto naturale, in occasione del quale il ginecologo eseguì la manovra di Kristeller.
Un intervento tempestivo per l’esecuzione del taglio cesareo (che doveva avvenire almeno un’ora prima) avrebbe scongiurato il rischio che l’ipossia potesse dar luogo al fenomeno di acidosi metabolica che ha determinato le gravissime lesioni cerebrali a carico del neonato.
Peraltro, il ginecologo di turno, in siffatta situazione (gravidanza oltre il termine in parto indotto con ossitocici, e segnali di sofferenza fetale manifestatisi fin da quando egli subentrò nel turno di guardia), non poteva affidare alla sola ostetrica il monitoraggio del travaglio ed intervenire solo al momento del parto su chiamata della stessa; ma avrebbe dovuto occuparsene in prima persona, per poi procedere tempestivamente al taglio cesareo.
Il ginecologo ricorre in Cassazione contro la sentenza di condanna, ma la Corte respinge tutti i motivi di ricorso e precisa quanto segue.
La corresponsabilità di ginecologo e ostetrica
E’ necessario richiamare quanto affermato anche in epoca recente dalla Corte di legittimità a proposito della responsabilità congiunta e concorrente del medico ginecologo e dell’ostetrica al manifestarsi di sofferenza fetale: sulla scorta di un indirizzo ormai consolidato, è stata affermata la
“corresponsabilità del ginecologo (nel trascurare i segnali di sofferenza fetale) e dell’ostetrica (nel venir meno al dovere di segnalare il peggioramento del tracciato cardiotocografico), trattandosi di attività rientranti nelle competenze di entrambe le figure professionali operanti in equipe”.
E si è ribadito che l’obbligo di diligenza che grava su ciascun componente dell’equipe medica concerne, non solo le specifiche mansioni a lui affidate, ma anche il “controllo sull’operato e sugli errori altrui che siano evidenti e non settoriali”, in quanto tali rilevabili con l’ausilio delle comuni conoscenze del professionista medio (Sez. 4, Sentenza n. 53315 del 18/10/2016, Paita e altri, Rv. 269678).
Per cui è stato rigettato il motivo di ricorso del ginecologo secondo il quale, in una situazione giudicata non preoccupante e di travaglio di parto spontaneo (benchè indotto), il monitoraggio doveva essere gestito in via esclusiva dall’ostetrica.
Il ginecologo, essendo tenuto a sincerarsi delle (non tranquillizzanti) condizioni della partoriente fin dal momento di assunzione del servizio di turno, non si sarebbe dovuto limitare ad assicurare la sua reperibilità, ma avrebbe dovuto vigilare attivamente sull’evolversi della situazione; ciò gli avrebbe consentito di disporre in tempo utile l’allestimento della sala operatoria perchè si procedesse a parto cesareo, oltrechè di venire tempestivamente a conoscenza dell’evoluzione delle condizioni della partoriente e del nascituro; di contro, non avendo assunto tale doverosa modalità comportamentale (qualificabile come comportamento alternativo diligente), egli venne a conoscenza della situazione quando ormai era troppo tardi.
La responsabilità del medico che subentra
La Corte di Cassazione respinge anche un’altra obiezione del ginecologo, circa il fatto che il danno cerebrale può verificarsi in casi simili anche in caso di ipossia della durata di 15 minuti.
Infatti, secondo i giudici, i primi segnali di sofferenza fetale emersero quando il ginecologo, subentrato da venti minuti, aveva già in carico la paziente.
Sul punto vale il principio, a più riprese affermato dalla giurisprudenza di legittimità, in base al quale
“il medico che succede ad un collega nel turno in un reparto ospedaliero assume nei confronti dei pazienti ricoverati la medesima posizione di garanzia di cui quest’ultimo era titolare, circostanza che lo obbliga ad informarsi circa le condizioni di salute dei pazienti medesimi e delle particolari cure di cui necessitano”.
Fino alla legge Balduzzi, in sede penale non rileva il grado di colpa medica
Con il terzo e ultimo motivo di ricorso per Cassazione, il ginecologo lamentava violazione di legge e vizio di motivazione in relazione alla qualificazione della colpa attribuita come “grave“, con riferimento a una condotta omissiva (ossia, di fatto, al non avere effettuato un controllo attento e costante dei tracciati e dell’operato dell’ostetrica), senza una puntuale verifica della posizione di garanzia del ricorrente, del comportamento alternativo doveroso e dell’efficacia salvifica di tale comportamento
Ma la Corte di Cassazione osserva quanto segue.
Va premesso che sotto il vigore delle disposizioni di cui alla legge n. 189/2012 (c.d. legge Balduzzi, da applicarsi nel caso di specie in quanto più favorevole della normativa vigente all’epoca del fatto e meno favorevole di quella sopravvenuta) la distinzione tra colpa lieve e colpa grave, agli effetti penali, non assume rilievo (nel senso che la responsabilità penale resta ferma) nel caso in cui non vi sia stata osservanza delle linee guida e delle buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica; e nella specie, alla stregua delle prove assunte e degli apporti valutativi del giudizio di merito, non può in alcun modo parlarsi di ottemperanza alle linee guida e alle buone prassi da parte del ginecologo. Sì che la questione assume rilevanza unicamente ai fini della determinazione delle conseguenze civilistiche di tipo risarcitorio.
Tanto osservato, è noto che, in tema di responsabilità per attività medico chirurgica, al fine di distinguere la colpa lieve dalla colpa grave, possono essere utilizzati i seguenti parametri valutativi della condotta tenuta dall’agente: a) la misura della divergenza tra la condotta effettivamente tenuta e quella che era da attendersi, b) la misura del rimprovero personale sulla base delle specifiche condizioni dell’agente; c) la motivazione della condotta; d) la consapevolezza o meno di tenere una condotta pericolosa (oltre alla giurisprudenza citata in proposito nella sentenza impugnata si veda in senso conforme Sez. 4, n. 22405 del 08/05/2015 – dep. 27/05/2015, Piccardo, Rv. 263736).
Tali parametri sono stati convenientemente scrutinati in sede di merito e può qui unicamente aggiungersi che il tema dei segnali di sofferenza fetale e delle possibili, gravissime conseguenze di un intervento tardivo è ampiamente noto non solo in letteratura medica, ma anche in giurisprudenza; ne discende che il grado di scostamento della condotta omissiva del medico, valutato congiuntamente alla (necessaria) consapevolezza delle cautele da adottare in una situazione come quella che si stava manifestando (e che doveva essergli nota, quanto meno nelle sue prospettive, fin dal momento dell’assunzione del servizio di turno) impone di escludere che, nella specie, possa parlarsi di colpa non grave.
In definitiva, alla stregua della ricostruzione della portata salvifica della condotta doverosa omessa dal ginecologo, della prevedibilità delle gravissime conseguenze che tale omissione avrebbe comportato e infine del prodursi delle stesse, è di tutta evidenza che il grado della colpa, alla stregua degli indicati parametri, è stato correttamente qualificato come “grave”.
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