Riportiamo un caso di malasanità trattato dal Tribunale di Trento con la sentenza 893/2016, relativo a responsabilità medica per tardiva diagnosi di tumore all’utero, a seguito della quale la paziente, anziché potersi operare, ha dovuto ingiustamente sopportare la chemioterapia e ha avuto minore possibilità di sopravvivenza, tanto che invero è morta.
La chance perduta e risarcita è la possibilità di conservare, durante il decorso della malattia, una migliore qualità della vita, nonchè la possibilità di sopravvivere.
Come sempre, prima di procedere all’analisi giuridica, diamo alcune brevi definizioni della malattia.
Il tumore al collo dell’utero
Il collo dell’utero è la porzione inferiore dell’utero, e la principale causa del tumore è l’infezione dai tipi 16 e 18 di Papilloma Virus Umano (HPV), che sono virus che si trasmettono prevalentemente per via sessuale.
Fortunatamente, nella maggior parte dei casi di infezione dal virus non segue il tumore, ma nel 2020 in Italia si sono registrati 2.365 nuovi casi di questo tipo di cancro.
A fini di prevenzione, esiste un vaccino e, inoltre, un esame detto pap-test che consente di diagnosticare la presenza di un eventuale tumore al collo dell’utero.
Il caso
In data 20 giugno 2007 Ca. Pa. si recò presso l’Ospedale S. Ca. di Trento per sottoporsi a visita ginecologica da parte del dr. An. Bo., medico dipendente dell’Ospedale che in quel frangente operava quale libero professionista in regime intramoenia.
La Ca., che non aveva mai eseguito un pap test, lamentava irregolarità mestruali da circa un anno e persistenza di scarso spotting. Alla visita venne accertato “utero retroverso a ecostruttura fibromatosa, di dimensioni nella norma. Endometrio 10 mm. Annessi regolari. Sa. … proveniente dal collo che presenta disomogeneità dell’esocervice”.
L’esame del pap test, non eseguito quel giorno per la presenza di sanguinamento, venne effettuato, sempre dal dr. Bo., il 12 luglio 2007, e l’esito, refertato il successivo 8 agosto, portava ad una diagnosi di “lesione intraepitaliale squamosa di alto grado: carcinoma in situ/CI. III”, con raccomandazione di eseguire un controllo colposcopico con biopsia.
I risultati dell’esame furono però conosciuti dalla Ca., a seguito del ritiro del referto da parte della figlia, soltanto nel gennaio 2008. Nel corso dei due mesi successivi si susseguirono vari accertamenti (colposcopia, esame istologico, RM addome inferiore e scavo pelvico, PET TC total body, urografia endovenosa, cisto-uretroscopia), all’esito dei quali venne formulata diagnosi di “carcinoma squamoso poco differenziato infiltrante – stadio FI. IIA”.
La Ca. fu pertanto ricoverata presso il reparto di oncologia dell’Ospedale S. Ca. dal 10 al 13 marzo 2008 per sottoporsi ad un primo ciclo di chemioterapia. Un secondo ciclo venne somministrato, presso lo stesso Ospedale, dal 31 marzo al 2 aprile 2008, ed un terzo, previsto nei giorni dal 21 al 24 aprile 2008, venne differito, per neutropenia, alla fine di aprile (dal 28 al 30 di quel mese).
Una settimana più tardi, verso le 22.30 del 7 maggio 2008, la Ca. cominciava ad avere vomito, scariche diarroiche e forti dolori intestinali, dolori che si facevano lancinanti a partire dalle 4.30, con contestuale insorgenza di stato febbrile. Un’ora dopo la febbre aumentava, e il marito della Ca. si rivolgeva al reparto di oncologia dell’Ospedale S. Ca., alla guardia medica, al 118, ed al medico di base, riuscendo ad ottenere l’invio di un’ambulanza per il trasporto presso l’Ospedale S. Ch. di Trento soltanto alle 8.30.
Alle 9.26 dell’8 maggio 2016 la Ca. giungeva pertanto presso il Pronto Soccorso di quell’Ospedale, ove verso mezzogiorno veniva formulata diagnosi di “schock settico in addome acuto”. Seguiva il trasferimento presso il reparto rianimazione e l’esecuzione di una TAC addominale. Tra le 17 e le 18.30 la Ca. era quindi sottoposta ad intervento chirurgico con asportazione dell’appendice. Alle h. 20.30 la paziente tuttavia decedeva.
Il marito si rivolgeva al Tribunale lamentando:
1) “la ritardata informazione alla paziente dell’esito del ‘Pap-test”, la cui responsabilità principale ricade sulla organizzazione amministrativa del D.H. Ginecologico dell’Ospedale San Ca. di Trento che venuto a conoscenza di un referto citologico positivo per Carcinoma, aveva l’obbligo di provvedere a chiamare la paziente con i comuni mezzi di comunicazione postale e telefonici per ulteriori accertamenti”;
2) ‘la discutibile professionalità del sanitario del servizio di ‘Guardia Medica’ che non è stato in grado di diagnosticare alla paziente una ‘appendicite acuta’ sintomatologicamente evidente”;
3) “l’inutilità di tutto lo zelo impiegato al P.S. per documentare la causa del quadro addominale, trascurando però di effettuare preliminarmente un emocromo che avrebbe evidenziato la grave leuco-piastrinopenia da grave tossicosi emopoietica che ha reso vano l’intervento chirurgico”.
Medico e Struttura devono subito informare i pazienti
Il Tribunale accerta che, per quel che concerne la prima censura svolta dall’attore, il ritardo nella comunicazione dell’esito del pap test eseguito il 12 luglio 2007, noto al personale sanitario a partire dall’8 di agosto, è incontestabile.
Infatti, nella sentenza in commento si legge che “nel più generale dovere di informare il paziente, che è uno degli obblighi generati dal contratto di spedalità o assistenza che si conclude col medico, oltre che con la struttura, in virtù dell’accesso del paziente alla struttura sanitaria, non può, infatti, non rientrare quello di rendergli noti i risultati degli accertamenti compiuti, in specie se positivi”.
La visita a domicilio deve avvenire con sollecitudine
La seconda censura riguarda la condotta del dr. So., all’epoca Guardia Medica dell’Azienda Sanitaria della Provincia Autonoma di Trento. Il dr. So. venne contattato telefonicamente dal Ma. una prima volta alle h. 6.30, e si limitò in questo caso a prescrivere la somministrazione di tachipirina. A seguito di una seconda telefonata, alle h. 6.50, il dr. So. si recò presso l’abitazione della Ca., dove giunse intorno alle 7.20, formulando una diagnosi di ‘virus intestinale’ e praticando un’iniezione di Buscopan.
L’operato del dr. So. è censurato anche dal CTU, sotto un duplice profilo: da un lato, ella osserva, “il quadro clinico riferito dal marito ed il dato amnestico di un recente trattamento chemioterapico, avrebbe imposto al medico di recarsi al domicilio della paziente con maggiore sollecitudine”; dall’altro, “la presenza di dolori addominali, diarrea e febbre avrebbe dovuto indirizzare la diagnosi verso un sospetto addome acuto e suggerire un immediato ricorso al Pronto Soccorso più vicino… la sua condotta [è] censurabile sia per non aver adeguatamente valutato il quadro clinico della signora Ca. (sintomatologia addominale, vomito, febbre, ecc. in soggetto chemiotrattato) e sia per aver somministrato un antispastico come il Buscopan, che come è noto non dovrebbe essere utilizzato nel sospetto di un addome acuto”.
La terapia deve iniziare tempestivamente
La terza censura si incentra sull’operato dei medici del Pronto Soccorso dell’Ospedale S. Ch., ed anche in tal caso la censura è condivisa dal CTU, non sotto il profilo della diligenza, ché al contrario la Ca. venne visitata ogni venti/quaranta minuti e ci si preoccupò di far eseguire gli accertamenti necessari ad una diagnosi certa, ma in quanto “già i dati clinici all’ingresso avrebbero potuto far sospettare la presenza di una patologia settica ed imporre, in considerazione della grave ipotensione e febbre, il ricorso a terapia infusiva ed antibiotica. Se andiamo ad analizzare le linee guida sul trattamento della sepsi/sepsi severa …, vedremo infatti che la terapia volemica e l’antibioticoterapia debbono essere iniziate il più tempestivamente possibile”.
Il risarcimento del danno per perdita di chance
La domanda attorea di risarcimento del danno per perdita di chance si riferisce, in primo luogo, al ritardo nella comunicazione del referto del pap test.
Ebbene, “senza il ritardo nella comunicazione del referto del pap test, la Ca. avrebbe potuto sottoporsi al solo intervento chirurgico, evitando così il trattamento chemioterapico e le deteriori condizioni di vita che esso necessariamente comporta sotto il profilo sia fisico che psicologico”.
La chance perduta, e quindi il danno, si identificano in questo caso nella possibilità di conservare, durante il decorso della malattia, una migliore qualità della vita (cfr. Cass., 18 settembre 2008, n. 23846).
Tale danno è stato liquidato, tenuto conto, da un lato, della durata (circa due mesi) del trattamento chemioterapico e, dall’altro, dello spiccato peggioramento della qualità di vita che esso notoriamente comporta, nella complessiva somma di € 30.000,00.
Il relativo risarcimento va posto a carico, in via solidale, all’Ente Ecclesiastico Fi. di S. Ca. ed al dr. Bo..
Con riferimento, invece, al ritardo nella gestione della situazione di emergenza verificatasi nella notte fra il 7 e l’8 maggio, appare configurabile un danno da perdita di chance consistente nella perdita della possibilità di sopravvivenza.
In una situazione in cui i medici e la struttura sanitaria chiamati a gestire l’emergenza hanno dato una risposta errata (com’è il caso del dr. So.), ovvero comunque inadeguata (com’è invece il caso del reparto di oncologia e dei medici del Pronto Soccorso), è possibile affermare che, “in presenza di fattori di rischio, detta carenza (che integra l’inadempimento della prestazione sanitaria) aggrava la possibilità che l’esito negativo si produca”.
Le indicazioni fornite dalle linee guida sul trattamento della sepsi e della sepsi severa circa un inizio il più possibile tempestivo della terapia volemica e antibiotica, e gli studi sulla percentuale di riduzione della sopravvivenza per ogni ora di ritardo – entrambi riportati dalla CTU –, rendono altamente probabile, se non addirittura certa, l’incidenza positiva di una terapia tempestiva sulle possibilità di sopravvivenza del paziente septico. Che è poi quanto sinteticamente espresso dalla dott.ssa Za. con l’affermare che ‘è intuitivo che il ritardo nell’effettuare queste terapie aumenta la mortalità‘.
Il danno è liquidato tenendo conto dell’età della Ca. all’epoca dei fatti e dell’importo previsto dalle Tabelle Milanesi aggiornate al 2014, per un’invalidità totale di persone di quell’età (€ 915.711,00), rapportato alla percentuale di riduzione delle possibilità di sopravvivenza (10%), e quindi in complessivi € 92.000,00.
Il risarcimento va in questo caso posto a carico del dr. So., nonché, in via solidale, dell’Azienda Sanitaria della Provincia di Trento (per quest’ultima ai sensi sia dell’art. 1218 che dell’art. 1228 c.c.).
Il diritto del paziente di vivere meglio e più a lungo
Il caso che abbiamo analizzato prevede il risarcimento del danno da perdita di chanche in ambito di responsabilità medico-sanitaria.
In tema di responsabilità per omessa/tardiva/inesatta diagnosi, dà luogo a danno risarcibile l’errata/omessa esecuzione di un intervento chirurgico praticabile per rallentare l’esito certamente infausto di una malattia, che abbia comportato la perdita per il paziente della chance di vivere per un periodo di tempo più lungo rispetto a quello poi effettivamente vissuto.
In questa fase, il ragionamento va di certo condotto in termini probabilistici, ma esclusivamente nell’indagare il rapporto tra la situazione fattuale e la perdita della possibilità del risultato utile, vale a dire nel compiere quella che è l’attività di accertamento del nesso di causalità materiale così come connotata in ambito civile, con applicazione della detta regola c.d. del più probabile che non.
Pertanto, in questi casi, intanto sussiste il nesso causale in quanto l’errore medico abbia comportato più probabilmente che non la perdita della possibilità di una vita più lunga da parte del paziente, statisticamente accertata, in caso di intervento chirurgico corretto ovvero di corretta e tempestiva diagnosi, sulla base di indagini epidemiologiche.
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