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Il caso
Un figlio ha citato i genitori davanti al Tribunale di Torino per sentirli condannare al pagamento di un assegno alimentare in suo favore, nella misura di 250 euro mensili a carico del padre e di 400 euro della madre.
Il figlio ha riferito che nonostante la laurea breve conseguita in informatica, e nonostante si fosse attivato per la ricerca di un lavoro, la propria condizione lavorativa era rimasta precaria e tale da non permettergli una vita dignitosa: in particolare, ha dichiarato di vivere in un dormitorio dopo lo sfratto seguito alla vendita dell’alloggio in cui viveva con la madre e con la nonna.
Nel contraddittorio con i genitori evocati in lite, entrambi costituitisi, il Tribunale di Torino ha dichiarato cessata la materia del contendere sulla domanda proposta dall’attore nei confronti del padre e ha invece respinto la domanda volta ad ottenere il contributo alimentare da parte della madre.
Il figlio ha impugnato la decisione davanti alla Corte di appello di Torino che l’ha respinta.
La decisione della Corte di Cassazione
Il figlio è ricorso alla Corte di Cassazione che ha rigettato il ricorso con sentenza n. 40882 del 20.12.2021 della Prima Sezione Civile che di seguito si riassume.
L’art. 438 c.c. prevede che gli alimenti possano essere richiesti “solo da chi versa in istato di bisogno e non è in grado di provvedere al proprio mantenimento“.
La situazione di bisogno va intesa come incapacità della persona di provvedere alle fondamentali esigenze di vita; esprime, dunque, l’impossibilità per il soggetto di provvedere al soddisfacimento dei suoi bisogni primari, quali il vitto, l’abitazione, il vestiario, le cure mediche, e deve essere valutato in relazione alle effettive condizioni dell’alimentando, tenendo conto di tutte le risorse economiche di cui il medesimo disponga, e della loro idoneità a soddisfare le sue necessità primarie (Cass. 8 novembre 2013, n. 25248). Il non essere in grado di provvedere al proprio mantenimento indica, poi, l’involontaria e non imputabile mancanza di un reddito di lavoro.
La giurisprudenza della Corte di Cassazione ha avuto modo di chiarire, al riguardo, che il diritto agli alimenti è legato alla prova non solo dello stato di bisogno, ma anche della impossibilità di provvedere, in tutto o in parte, al proprio sostentamento mediante l’esplicazione di un’attività lavorativa, sicché, ove l’alimentando non provi la propria invalidità al lavoro per incapacità fisica o l’impossibilità, per circostanze a lui non imputabili, di trovarsi un’occupazione confacente alle proprie attitudini e alle proprie condizioni sociali, la relativa domanda deve essere rigettata (Cass. 6 ottobre 2006, n. 21572; nello stesso senso: Cass. 14 febbraio 1990, n. 1099; Cass. 30 marzo 1981, n. 1820).
La Corte ha fatto riferimento alle condizioni del ricorrente (siccome laureato e in possesso delle competenze specialistiche che gli consentirebbero di svolgere attività lavorativa in un settore che non può definirsi in crisi), non per conferire rilievo a vicende future, ma per chiarire che il ricorrente non versava nell’impossibilità, per circostanze a lui non imputabili, di trovarsi un’occupazione confacente.
Il reddito di cittadinanza
Nella sentenza si legge anche che “l’accertamento dell’impossibilità per il soggetto di provvedere al soddisfacimento dei suoi bisogni primari non può poi prescindere dalla verifica dell’accessibilità dell’alimentando a forme di provvidenza che consentano di elidere, ancorché temporaneamente, lo stato di bisogno (sì pensi, oggi, al reddito di cittadinanza di cui al D.L. n. 4 del 2019, convertito dalla L. n. 26 del 2019).
E’ da credere, infatti, che, nella partita del diritto agli alimenti, la colpevole mancata fruizione di tali apporti giochi lo stesso ruolo dell’imputabile mancanza di un reddito di lavoro; nell’uno e nell’altro caso si delinea l’insussistenza di quell’impedimento oggettivo ad ovviare al lamentato stato di bisogno che è condizione per l’insorgenza del diritto in questione.
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